
L'editorialista de La Nazione Marcello Mancini
Firenze, 13 luglio 2014 - E’ UN PIANO Marshall o lo sbarco in Sicilia? Vengono a salvarci o ci stanno colonizzando? I colossi stranieri, in prima fila gli americani, si mettono in casa molte nostre grandi imprese. Investono nella crescita (tendenza positiva che, almeno come slogan, frequenta sistematicamente i propositi del governo) e spesso mantengono in vita aziende con il futuro dietro le spalle. Gli arabi di Etihad sono il ricostituente per Alitalia; al gruppo argentino che fa capo a Eduardo Eurnekian è affidato il decollo sinergico degli aeroporti di Firenze e Pisa; l’americana Whirlpool ha annunciato proprio ieri di aver acquisito la quota di maggioranza della Indesit, la storica azienda degli elettrodomestici di Fabriano. Insomma, bisogna capire se la perdita del controllo del nostro marchio di fabbrica, il made in Italy, da parte degli imprenditori del Belpaese, è un passaggio inevitabile di cui essere orgogliosi (e perfino riconoscenti), oppure un segno di resa dopo anni sprecati a piangersi addosso, annichiliti dalla gogna fiscale, nei quali pochi hanno saputo costruire qualcosa di nuovo annusando il vento del cambiamento.
AL PUNTO in cui siamo, cioè con la crisi che rimane una palla al piede di cui non ci si libera a parole, le nuove relazioni internazionali sembrano piuttosto una ciambella da prendere al volo prima di affogare. Anche perché, dopo tutto, siamo noi a dover rimpiangere di non esserci svegliati in tempo e serve a poco appellarsi a un patriottismo vuoto e tardivo. Qualche giorno fa l’ambasciatore americano a Roma, John Phillips, che è un po’ toscano perché da dodici anni ha acquistato e ristrutturato un borgo a Buonconvento, ha spiegato, a Firenze, la strategia degli investimenti che gli Usa possono progettare fra Toscana e Umbria. E’ quella che il linguaggio diplomatico definisce «collaborazione fra le imprese», che però si traduce nell’operatività solo se ci sono i soldi delle multinazionali che alimentano le idee di innovazione. Il made in Italy ancora seduce, ma serve prima di tutto una serie di modifiche ai nostri vizi amministrativi - semplificazione, giustizia più snella che accorci le cause legali, riforme istituzionali - che costituiscono una barriera dissuasiva. Al netto di questa italica zavorra, la Toscana già detiene il record di fiducia da parte degli americani - qui ci sono cento aziende a stelle e strisce - e in un decennio ha incassato 10.953 investimenti diretti degli Usa. Sarà il business conveniente della stagione più difficile che abbiamo vissuto dal Dopoguerra, però, da General Electric alla Eli Lilly, l’arrivo degli americani ha lasciato un segno e ha frenato in parte la fuga dei giovani all’estero. La controindicazione è una frettolosa liquidazione delle nostre aziende da parte degli imprenditori con l’acqua alla gola. Dipende da noi fare in modo che le imprese Usa non acquistino solo il brand, dunque una prestigiosa confezione da riempire, ma soprattutto si assicurino le competenze, di cui sono interpreti gli artigiani, i lavoratori che, unici, possono continuare la tradizione e i saperi di questa terra attraverso le gambe e le idee dei giovani. Allora non si tratterà di colonizzazione ma di opportunità, da agevolare e sfruttare per sciogliere il magone che siamo stanchi di portarci dentro.