GIOVANNI
Cronaca

Quando Dante fu assolto a San Francesco

Nel 1966 di un altro centenario, la revisione del processo del ’300, protagonisti il futuro presidente Leone, alti magistrati e grandi studiosi

Giovanni

Galli

Il 16 aprile 1966 il Comitato dantesco aretino ricordò il VII centenario della nascita del sommo poeta con un singolare convegno, nella forma di un processo, svolto di fronte ad un vasto pubblico nella basilica di san Francesco. Oggetto del “processo” le sentenze del tribunale della Repubblica Fiorentina, che nel 1302 e nel 1315 condannò il poeta a pene pecuniarie, esilio e morte. Sentenze sempre considerate ingiuste dagli studiosi e mai cancellate. Pur sapendo quanto sia difficile definire se sia possibile procedere ad una loro revisione alla luce degli Statuti fiorentini del tempo e degli attuali principi giuridici, il Comitato ha comunque voluto onorare il centenario dantesco con un pubblico ‘processo’.

In esso fu ricostruito il quadro storico delle lotte guelfi e ghibellini e tra guelfi bianchi e guelfi neri nella Firenze di Dante, dove, alla fine del 1301, Bonifacio VIII inviò, come paciere, Carlo di Valois. Al suo seguito rientrarono in città i guelfi neri di Corso Donati, che cacciarono i bianchi. Dante, guelfo bianco, impegnato ancora presso la Curia Romana come ambasciatore e citato in giudizio a gennaio 1302, decise di non comparire davanti al giudice Canto de’ Gabrielli da Gubbio per sfuggire all’aggressione dei suoi avversari, che avevano già depredato la sua casa e ferito gravemente un parente.

Condannato in contumacia a due anni di esilio e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, scelse l’esilio e nel marzo continuò a non rispondere al giudice e podestà Canto de’ Gabrielli, che lo condannò al rogo.

La fazione vincitrice, per demolire un avversario politico come Dante, promosse un processo basato su una serie di reati infamanti come peculato, concussione, interesse privato in atti di ufficio, frode e falsità. Nel 1315 un nuovo processo si concluse con una seconda condanna a morte del poeta per le sue idee politiche, favorevoli al potere temporale in mano esclusiva dell’imperatore, indipendente dalla Chiesa, dotata solo del potere spirituale. Idee espresse nel libro Monarchia e negli accesi discorsi presso le corti in cui Dante si trovava, ma ritenute un fatto criminoso nella Firenze dei guelfi neri.

Senza alcuna pretesa di un giudizio definitivo, il ‘processo’ aretino ripropone il problema della veridicità o meno delle accuse e della regolarità procedurale. Sul piano tecnico-giuridico e storico, la competenza territoriale di Arezzo è giustificata in quanto qui Dante trovò il primo rifugio come esule e in territorio aretino attuò i pretesi fatti delittuosi, come le “epistole” casentinesi del 1311 agli “scelleratissimi fiorentini” e all’imperatore Enrico VII.

Nel ‘processo’ una qualificata assise di storici, linguisti, filosofi, teologi, giuristi e magistrati (tra i quali Giovanni Leone, insigne giurista e futuro presidente della Repubblica, Ernesto Eula, presidente della Corte Suprema di Cassazione, Francesco Mazzoni, filologo tra i massimi esperti di Dante), ha ricostruito l’intricata vicenda dantesca: chi nel ruolo di testimone, chi in quello dell’accusa o della difesa e chi nella giuria. Il pubblico accusatore sostenne la legalità formale dei processi fiorentini, ricostruì l’atmosfera in cui si svolsero e persino espresse gratitudine per quei giudici crudeli sì, ma senza la loro condanna all’ esilio forse non avremmo avuto la “fiumana lucente di poesia” della Divina Commedia, uscita dalla coscienza ferita e dall’impeto poetico di Dante.

Gli interventi di quanti hanno svolto la parte dell’accusa o della difesa raccontano l’asprezza della lotta politica che coinvolse anche Dante, mentre sul piano giuridico sono emersi dubbi e irregolarità procedurali, come la legittimità o meno della condanna per contumacia e la mancanza di prove, che per la giuria aretina sono una grave e irreparabile carenza processuale, evidenziata dal confronto con altre sentenze riportate nel Libro del Chiodo o delle Condanne delle famiglie ribelli del comune di Firenze dal 1302 al 1378.

Sul piano storico viene dimostrato che si è trattato di processi politici con sentenze di fazione, anzi “di sopraffazione”, che ci raccontano come Dante sia stato vittima della selvaggia legge della prepotenza del vincitore, come spesso accade quando, dopo lunghe lotte cittadine, a pagare siano soltanto i vinti. Quello di Dante è un esemplare caso di applicazione di questa legge, per la quale i suoi avversari dopo la vittoria politica hanno cercato di demolirlo sul piano morale e di distruggere la sua reputazione.

La triste vicenda dei processi a Dante ci lascia delle sentenze che sono, dunque, opera di rancore e vendetta politica e non di giustizia, ma nella nostra mente non distruggono la sua figura e la sua sfolgorante poesia. È questo che l’Arezzo dell’aprile 1966 dimostra di aver compreso, celebrando un nuovo ‘processo’ in cui la corte, “ dichiara il sommo poeta Dante Alighieri non colpevole e lo assolve, davanti al diritto e alla storia, dalle imputazioni contestategli”.

Le cronache del tempo raccontano l’apprezzamento da parte di TV, radio e stampa per il ‘processo’ e , lo presentano come uno degli eventi più significativi del centenario dantesco.