FRANCESCO TOZZI
Cronaca

Puti Avati e mezzo secolo di ciak. Il racconto tra film, libri e ricordi: "Qui è come la mia seconda casa"

L’intervista al regista premiato con il Marzocco. Il legame con Arezzo: "Nasce anche per il mio Dante"

Puti Avati e mezzo secolo di ciak. Il racconto tra film, libri e ricordi: "Qui è come la mia seconda casa"

Per Pupi Avati tutti i riconoscimenti in campo cinematografico hanno pari valore. Il Marzocco alla carriera ricevuto ieri sera a San Giovanni è come un David di Donatello. Secondo il regista che ha fatto la storia del cinema italiano quello che conta è che qualcuno in ogni angolo del mondo "ti pensa, ti stima e tiene a comunicarti il suo affetto. Questo è stato sufficiente per farmi salire in macchina, direzione Valdarno".

Avati, lei è già stato a San Giovanni nel 1986.

"Portavo in giro Regalo di Natale ed era un’esperienza molto gratificante perché aveva suscitato un tale interesse da farci vivere uno dei momenti ‘up’ della nostra vicenda professionale. Il film ottenne un grande successo anche al botteghino, insieme al plauso della critica. Aveva avuto un tale riverbero che portarlo anche a San Giovanni fu emozionante, era come presentare un figlio appena laureato con 110 e lode. Ce la siamo goduta in quell’anno".

Ha anche un legame speciale con Arezzo.

"La vita mi ha portato ad Arezzo in molte circostanze, principalmente per la mia attività letteraria. Ricordo alcuni incontri per presentare i miei libri in città davvero memorabili, anche per l’affluenza di persone. Ne conservo un ricordo bellissimo. E poi Arezzo ha avuto molto a che fare con il mio Dante, non certo in modo amichevole (sorride, ndr)".

E dei suoi studi in scienze politiche a Firenze?

"Mi alzavo la mattina alle 4,30 e facevo il pendolare, quindi per me era molto faticoso e ad un certo punto mi arresi. È una città che conosco molto bene, purtroppo però nell’ultima esperienza cinematografica in Toscana non siamo riusciti a girare il mio Dante perché Firenze è ormai compromessa dalla modernità. Ho dovuto ripiegare in Umbria, che conserva ancora un aspetto medievale. Negli anni non è stata preservata, le insegne e i grandi marchi hanno avuto il sopravvento".

Nella sua produzione ha spaziato tra molti generi.

"Tutti, tranne il western che non mi è mai piaciuto. Non è stata una rinuncia dolorosa, diciamo".

Quale sente più vicino alla sua sensibilità artistica?

"Sono equidistante, diversamente dai miei colleghi, che in alcuni casi sono diventati loro stessi dei generi".

Faccia una scelta.

"La mia prolificità, che essenzialmente si può riassumere nell’aver fatto un film all’anno, è dovuta al fatto che ogni volta sentivo la necessità di cambiare. Il mio ultimo lavoro, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, è un dramma mentre il mio prossimo film, L’orto americano, sarà un horror girato tra gli Stati Uniti e Comacchio e ambientato nel 1946. Non posso fossilizzarmi, la mia creatività diventerebbe maniera. Passare dagli struggimenti esistenziali al terrore è come cambiare mestiere. Ti rinnovi e ritrovi l’entusiasmo delle prime volte".

È cambiato Pupi Avati in 55 anni di carriera?

"Mi sono ricreduto rispetto a certe convinzioni che avevo in passato, ma il fil rouge che lega la mia vita e il mio lavoro è l’essere alternativo. Credo di non essermi mai piegato alle mode del momento. Io e mio fratello obbediamo solo a ciò che ci piace fare, con gli attori che ci piacciono, senza tener conto delle opportunità che il mercato ti suggerisce. Rivendico di essere alternativo da 55 anni e questo nessuno può metterlo in discussione".