
Il regista Andrea Segre ieri. a. Castiglion Fiorentino ha presentato “Berlinguer“
di Marianna Grazi
AREZZO
"Quella comunità fatta di milioni di persone non esiste più, ma non possiamo lasciare la politica in mano a oligarchi". Il regista Andrea Segre ieri sera davanti al pubblico di Castiglion Fiorentino ha presentato Berlinguer – La grande ambizione, il suo film su una delle figure più emblematiche della politica del Novecento. In chiusura, quindi, il Castiglioni Film Festival accoglie uno degli autori più coerenti e impegnati del cinema italiano, capace da anni di coniugare racconto documentaristico e sguardo poetico.
La sua presenza al Castiglioni Film Festival dà un segnale forte: c’è attenzione per questi eventi di provincia?
"Mercoledì ero a Gorizia, poi Monfalcone, Mantova, un paesino in provincia di Modena, e ora Castiglion Fiorentino. È importante portare il cinema lì dove fa più fatica, ma dove ci sono persone che lo amano e organizzano occasioni per la comunità. È troppo facile presentare i film a Roma e Milano. Lo dobbiamo fare, ma l’Italia è fatta di tantissima provincia. E il minimo che possiamo fare è ringraziare chi tiene vivo il cinema in questi luoghi".
In rassegne come queste c’è anche uno scambio generazionale con gli artisti emergenti?
"Sì, ed è fondamentale. È importante che il mio lavoro funzioni, ma anche quello di chi deve iniziare. Io non vedo l’ora di vedere i film di chi ha dieci anni meno di me, come hanno fatto i maestri prima di me. È uno scambio che fa vivere il cinema, anche in un tempo in cui sembrava destinato a scomparire. I film ora si vedono quando e dove vogliamo, ma il cinema resta un’esperienza collettiva, e i ragazzi oggi lo capiscono: è molto più bello vedersi un film insieme, senza distrazioni".
Nel film emerge un ritratto complesso, lontano dalla retorica. Cosa l’ha spinta a raccontare oggi quella figura politica?
"Mi colpiva il fatto che non esistesse un film su Berlinguer. E ho sentito che potevo usare il mio lavoro per porre domande all’oggi. La politica è corrotta, non ci rappresenta, ma evitiamo di affrontare davvero il problema. Non partecipare alla vita democratica è un guaio. Il bene pubblico è gestito da oligarchie fuori controllo. Raccontare una comunità che faceva della partecipazione politica un pezzo centrale della propria vita ci costringe a chiederci perché oggi non lo facciamo più, e cosa comporta questa assenza".
Chi è stato per lei Berlinguer? "Non ho un ricordo personale: ero troppo piccolo. La mia famiglia non era legata al PCI e ho solo sfiorato quel mondo, da adolescente, quando andavo alle feste dell’Unità. Ricordo l’atmosfera bella, fatta da volontari. Ma proprio perché non ho un legame diretto, questo film non è una celebrazione. È una riflessione sull’oggi, attraverso quella memoria".
Nel film si parla di ambizione. Esiste ancora oggi nella società?
"È una domanda centrale. Non riavremo mai i partiti di allora, non c’è più quella società. Ma dobbiamo chiederci come costruire oggi organizzazioni che attivino il nostro ruolo di cittadini. Perché se non lo facciamo, le scelte politiche finiranno inevitabilmente in mano a poche persone, che gestiscono tutto in modo tecnicistico, distante, oligarchico. E questo riguarda tutti noi".