
Il piano dei restauri decise nel ‘900 di completare quella di Borgunto e rialzare la Faggiolani, ma la corona muraria ne tradiva la doppia anima
Caneschi
Nel 1995 Giorgio Gaber cantava "Destra e Sinistra" concludendo il brano con "Basta!". C’è da scommettere che qualche menestrello medievale chiosò allo stesso modo un ipotetico refrain "guelfo e ghibellino". Tutto iniziò a Firenze nei turbolenti anni Quaranta del Duecento. Capeggiarono l’opposizione interna al podestà Federico d’Antiochia, figlio naturale di Federico II, alcune famiglie in sintonia con il papa i cui leader figurarono menzionati come capitani della parte guelfa. Un documento redatto a San Gimignano nel 1246 citò, per Firenze, i guelfi e i ghibellini senza specifica alcuna.
Perché i fiorentini scelsero di chiamarsi così? Rimane un mistero, a meno di non prendere per buona la tesi dell’orecchiabilità di epiteti la cui origine era e resta oscura ma che di certo suonavano esotici e conferivano un tocco di charme a chi se ne appropriava. Un’elementare narrazione ha bollato le città toscane ma queste dipesero dai desiderata e dai destini dei poteri universali, entrambi stranieri, tedesco l’impero e francese il papato. Le élite si composero e scomposero, con tanto di anatemi, liste di proscrizione, cacciate, morti, vendette, ribaltoni, guidate da sentimenti primordiali, interessi materiali, parentele e matrimoni. Ma quali purezza e orgoglio.
Fu Pisa, semmai, a potersi fregiare della palma d’oro del ghibellinismo. E neanche l’antica repubblica del mare rimase esente dal guelfismo tra il 1268 e il 1288. Quando si affidò all’usato sicuro Uguccione della Faggiola riprese una politica aggressiva. Referente dell’impero durante l’ultimo tentativo d’imporsi sull’Italia centro-settentrionale, portò perfino la guelfissima Lucca, passata a Castruccio Castracani, a rinnegare l’orientamento tradizionale. Siena si sentì, piuttosto, filo-sveva ma lo rimase per poco: nel 1270 entrò nella rete che Carlo d’Angiò stava tessendo in Toscana e si schierò, compresa Campaldino, sempre con Firenze, guelfa definitivamente dal 1266.
Negli anni Cinquanta del ’200 anche ad Arezzo, che vantava una lunga storia di alleanza con Firenze e di podestà fiorentini, si configurarono due universitates autodefinitesi guelfa e ghibellina: i loro capitani e consigli rivendicarono autorità sui rispettivi partitanti e si sentirono libere di stringere alleanze con chicchessia. Per un biennio, unica tra le città maggiori, restò guelfa anche dopo Montaperti, mentre l’instaurarsi di un "monocolore" ghibellino datò 1287. Quanto ai Tarlati, alla coerenza "ideologica" preferirono gli interessi familiari. Dopo quelli di palazzo comunale occupiamoci di altri merli e torri investiti dai restauri del regime.
Tralascerò casa Petrarca, per non riaprire il polverone se sia stata o meno il luogo natale del poeta. Bastano altri esempi per far venire in mente Ennio Flaiano: poche idee ma confuse. Intanto, nulla poté resuscitare la famigerata torre rossa, dei primi decenni del XIV secolo, dalla cui cima rintoccava un campanone da seimila libbre. Si trovava a fianco del palazzo del Comune, non l’attuale ma quello del XIII secolo anch’esso perduto e che (da una relazione della Brigata degli amici dei monumenti) venne "fatto alla maniera dei Goti - come affermò il Vasari - e cintato da mura merlate alla maniera guelfa". E siamo già fuori contesto visto che sorse una quindicina d’anni prima dell’entrata dei due termini nell’uso corrente.
L’assemblea annuale del 1932 dei soci della Brigata aretina degli amici dei monumenti presieduta da Pier Ludovico Occhini sostenne la necessità di ultimare la torre di Borgunto. Come da usanza, riassunti i panni di podestà, Occhini diede seguito ai propositi grazie al fidato Giuseppe Castellucci. Scrisse nella delibera d’inizio 1935 che sarebbe dovuta tornare a "rivaleggiare colla torre dei Faggiolani di Piazza Grande" e ribadì tre volte: "merlatura ghibellina".
Fu portata da venti a trenta metri ma sfoggia ancora il coronamento piano o se preferite alla maniera guelfa. Veniamo alla torre dei Faggiolani di palazzo Cofani, vicina alla torre Lappoli, entrambe rialzate e dotate di merli piani/guelfi tra il 1927 e il 1931.
Perché pure la prima, che sarebbe quella di Uguccione? Se la moda fu quella del ripristino stilistico soggettivo, quindi non com’era ma come avrebbe potuto essere, della Faggiola si schierò con il partito ghibellino. Ergo… La torre littoria, un tempo Bigazza: dal 1933 svettò, accanto alla casa del fascio, fino a trentadue metri su progetto di Castellucci, con una cella ospitante una campana, sempre littoria, da venticinque quintali. "La sorella minore" del campanile "delle Cento Buche", "grido di tutte le battaglie e di tutte le vittorie". Merlatura guelfa nonostante la venerazione fascista per i Pietramala ghibellini. Porta san Lorentino, su progetto di Umberto Tavanti, da una divenne trina, mentre la cinta muraria fino a via Guadagnoli veniva giù come un castello di sabbia.
Bisognava "liberare (sic!) Arezzo da quella cerchia di mura altissime". Due illustrazioni su La Nazione Arezzo diedero conto dei prospetti post-restauro. Si vedono i merli piani e il giornale confermò che "le mura riavranno l’antica merlatura guelfa". E invece possiamo ammirarli a coda di rondine e quindi, nell’immaginario, ghibellini