
Il progetto urbanistico del podestà Occhini tra simbologie politiche e scelte estetiche che riflettono le tensioni e le ambizioni di un’epoca.
Caneschi
Quando Pier Ludovico Occhini, il suo cerchio magico e i suoi fidi Giovanni Castellucci, architetto, e Umberto Tavanti, ingegnere, misero mano al centro storico, tra fine anni Venti e inizio anni Trenta del Novecento, per un’operazione di “pane restauro e (parecchia) fantasia”, avevano in mente “le cento torri aretine che ci distrussero perché sapevano parlare di patria e libertà”. Altro che San Gimignano, diventata un’ossessione. Bene: andavano rielevate, ammassate, con i merli, per i quali il richiamo a guelfi e ghibellini denotò molta leggerezza. Preferisco, più coerentemente con una loro natura militare, piani o a coda di rondine. Un lavoro immane.
Così il fascismo aretino, seppur ubriaco di autocompiacimento campanilistico, si accontentò di… sei. Ma, sottolineò la Brigata aretina degli amici dei monumenti, erano “torri "aretine" e null’altro”. Nostrali come i polli. “Lontane dalle eleganze fiorentine o senesi ma anche dalle rudi architetture di altre terre toscane. La "Torre di Uguccione" non è la "Torre del Mangia" né quella di Arnolfo, ma neppure è una delle torri che fan la bellezza di San Gimignano. Né quella di Uguccione, né quella vicina dei Lappoli né le altre sparse per i nostri rioni han caratteri comuni con costruzioni coeve di terre vicine”. E quindi come sarebbero? “Di tipo sempre pressoché identico, erette per lo più sulla destra dell’edificio, con la disposizione e il taglio singolare delle loro finestre, col rivestimento a bozze piccole e rilevate o a "filaretto"”. In tutto ciò, palazzo comunale era ridotto a “un edificio imbastardito senza carattere” ma doveva tornare “sede degnissima della risorta magistratura podestarile”.
Da presidente della brigata, Occhini nel 1925 mostrò al commissario straordinario Giulio Nencetti un disegno di Umberto Tavanti, che per il pacchetto completo, torre e corpo principale, concepì almeno sei progetti, con merli di ogni tipo, senza merli, solo sugli spigoli del palazzo... come testimonia “The Renaissance perfected Architecture, Spectacles, and Tourism in Fascist Italy” di Medina Lasansky. Nel 1930 Occhini divenne podestà. Intanto Cesare Verani, redattore di “Giovinezza”, il settimanale della federazione provinciale fascista, scrisse che la merlatura della torre sussisteva, ed era senz’altro ghibellina, fin dal secolo XIII, quindi 1200, un abbaglio incomprensibile. Occhini, correttamente, ricordò che il palazzo “fu costruito nel 1333 per i Priori del Popolo” e la torre addirittura nel 1337. Dopo di che, entrambi si lasciarono prendere dall’entusiasmo: palazzo e torre avrebbero contraddistinto i tempi di Arezzo grande potenza retta dalla signoria ghibellina dei Tarlati. Ma se il palazzo era del 1933, Guido stava sottoterra da sei anni, dopo avere fatto della città non certo la punta di diamante del ghibellinismo italiano (Verona e Milano) o dell’impero in Toscana (Lucca e Pisa). Resta solo Pier Saccone. Colui che cedette Arezzo a Firenze nel ’37. Quando la torre venne realizzata? Appunto. Il venticinquenne Verani cresciuto nello squadrismo - per quanto l’articolo di “Giovinezza” sia anonimo scommetto che è roba sua - si erse anche a protagonista di un botta e risposta con Umberto Tavanti nel marzo del 1931, soffermandosi sul progetto di restauro della torre su cui finalmente era convenuto l’ingegnere. In primis i merli: “è stata risolta la questione storico-politica della foggia? Per noi rimane ancora senza risposta la domanda: guelfi o ghibellini?” Dopo di che calò il jolly: “perché nonostante tutte le obbiezioni, in mancanza di sicure testimonianze tratte dai documenti o da riproduzioni figurate, è opportuno che la Torre Civica affermi, oggi, con la sua corona merlata, la parte politica predominante all’epoca comunale e, soprattutto, nel periodo di potenza della signoria del vescovo Guidone”.
La ricostruzione storica non procede con rigore scientifico da fonti scritte o iconografiche, per le quali sembrerebbe valere il motto “me ne frego”. Basta arrangiarsi in base alla convenienza. A seguire, il posizionamento della vela: “non sarebbe più opportuno collocarla nello spigolo - a destra di chi guarda da via Cesalpino - piuttosto che al centro?” Umberto Tavanti replicò nell’arco di una settimana. Rassicurando sui merli: “come fu deciso dall’egregio Podestà Occhini saranno di foggia ghibellina per le note (sic!) ragioni storiche opportunamente ricordate anche nella puntata di Giovinezza”. Poi chiuse i conti con un guizzo di sessantanovenne dignità: se metto la vela in un fianco della torre, dimenticatevi l’effetto-skyline arrivando da sud e accontentatevi della piuma di un berretto da finanziere. A guardare le torri che rialzò invece Castellucci, in piazza Grande, davanti alla pieve, in Borgunto, a casa Petrarca, presentano tutte merlature piane. Ma a palazzo comunale arrivò in seconda battuta, per la facciata.
Nella delibera podestarile del 1932 relativa a quest’ultima non si trovano riferimenti ai merli e a come realizzarli. Magari Occhini lo ritenne implicito o un suggerimento pleonastico. Io nutro fiducia nei confronti dell’architetto: galeotto fu il suo occhio clinico, la diagnosi del costruito che lo indusse ad adottare la giusta terapia, ovvero un coronamento che uniformasse torre e facciata. Trovando perfino il modo, nei merli centrali più in evidenza di quelli laterali, di metterci del suo.