ATTILIO BRILLI
Cronaca

Quella saracinesca chiusa sulla piazza antica. Il fascino del Caffè dei Costanti non svanisce

Per oltre due secoli è stato il punto di riferimento della borghesia aretina. Tra aneddoti e omaggi celebri, la speranza di riaprire

Per oltre due secoli è stato il punto di riferimento della borghesia aretina. Tra aneddoti e omaggi celebri, la speranza di riaprire

Per oltre due secoli è stato il punto di riferimento della borghesia aretina. Tra aneddoti e omaggi celebri, la speranza di riaprire

BrilliIl Caffè dei Costanti ha costituito per oltre due secoli l’ammarraggio della borghesia aretina e l’approdo occasionale dei forestieri di passo sin da quando si rinfrescavano prima di salire le scale dell’antistante Albergo Reale alle Arni d’Inghilterra, o del vicino Albergo della Posta. Come tale, è stato il punto d’incontro fra i locali e il flusso cosmopolita che lambiva la città e, alla stregua di ogni caffè che si rispetti, è un cantastorie che può vantare una ricca messe di aneddoti.

Fu qui, per esempio, che nell’irriverente volumetto Donne e buoi dei paesi tuoi, il cortonese Pietro Pancrazi ebbe l’idea di definire Arezzo "la città delle statue", per il gran numero di simulacri marmorei e di terracotta che ne ornano i palazzi e soprattutto ne costellano i punti strategici. A cominciare, in Piazza San Francesco appunto, dalla figura arguta dell’ingegnosissimo Fossombroni, idraulico, storico, economista e primo ministro granducale, il quale accarezza il leone che lo scultore Romanelli gli ha collocato da presso come simbolo della Chiana domata.

Un secolo prima, Alfred de Musset aveva coniato l’epiteto di "Arezzo città delle lapidi", per le tante targhe commemorative ed elogiastiche che contrassegnano, spesso in toni da poema eroicomico, le facciate di gran parte dei suoi edifici storici. Nel frattempo, i fratelli Goncourt annotavano con malizia che "il caffè, in Italia, è un luogo pubblico dove si va per non consumare niente". E con ogni probabilità quello dei Costanti non faceva eccezione. In compenso tuttavia, Edward M. Forster, l’autore di "Camera con vista", scriveva nei taccuini di essere rimasto talmente stordito dal fulgore degli affreschi di Piero, da aver dovuto ricorrere ad un cordiale nel Caffè dei Costanti.

Negli anni Settanta poi, ci si poteva imbattere nell’elegante, taciturna figura di Arturo Benedetti Michelangeli che vi sostava per sorbire un caffè nella spola fra le Logge Vasari, dove teneva lezioni di perfezionamento pianistico, e il Teatro Petrarca dove faceva le prove per il concerto di fine corso.

In questo rinomato locale, come nel prospicente ristorante Buca di San Francesco, sono state scritte o comunque concepite le pagine più belle dedicate agli affreschi di Piero, come ci ricorda Maryline Desbiolles nel suo recente, incantevole Mangiare con Piero. Si può dire pertanto che, inteso come luogo, il caffè è una figura retorica, è il contenente che trae il nome dal contenuto, e come tale conosce pochi mutamenti nella sua storia.

Alcuni esperti sostengono che, in quanto istituzione, il caffè sarebbe nato nel Seicento a Venezia, altri ne stabiliscono la nascita a Londra nel quartiere degli scrittori e delle stamperie. In ogni caso esso diventa ovunque il punto di riferimento obbligato, per non dire proverbiale, per quanti vivono e operano a vario titolo in una città.

Nel 1776 il pittore Thomas Jones così descriveva il più famoso caffè romano: "Per trovare un po’ di sollievo, l’unica alternativa era recarsi al Caffè degli Inglesi, uno stanzone a volta con le pareti affrescate con sfingi, obelischi e piramidi ispirate ai disegni fantastici di Piranesi". Poi il locale prese il nome di Caffè Greco, rimanendo comunque il luogo d’incontro di artisti e illustri forestieri. Attorno alla metà dell’Ottocento, lo scrittore americano William De Forest si soffermava ad illustrare il ritrovo della società cosmopolita fiorentina in via Tornabuoni: "Il caffè Doney è sempre lindo e pulito con i suoi tre saloni, le colonne color crema, i tavolini di marmo, le uniformi bianche dei militari austriaci e le giacche di tweed dei turisti inglesi".

Nello stesso periodo un ritratto del padovano Caffè Pedrocchi ci viene offerto dal romanziere statunitense W.D. Howells che parla di un edificio "nelle cui eleganti sale gli avventori si riuniscono la sera per restarvi fino a notte fonda, davanti alle tazze fumanti o ai gelati, immersi nella lettura dei giornali e in interminabili conversazioni". Ad Arezzo, vedere perennemente chiuso lo storico locale che ha rappresentato per anni, se non per secoli, il biglietto da visita della città, è come toccare con mano il vanificarsi dello spirito del luogo.

La muta insegna Caffè dei Costanti che si staglia al di sopra di una saracinesca abbassata degrada piazza San Francesco da privilegiato luogo di sosta, ricco di chicchere e di chiacchiere, di colori e di immagini, ad anonimo e frettoloso luogo di transito. Tornano in mente a questo punto le parole con le quali Buonafede Pichi, imprenditore aretino che, sulla soglia del Novecento, si chiedeva e chiedeva ai concittadini: "Non so qual fato gravi su questo Caffè, né conosco le ragioni che dissuadono il pubblico dal concorrere a mantenere questo locale".

Aprire di nuovo il Caffè dei Costanti sarebbe un modo per rivitalizzare lo spirito del luogo, offrire un degno approdo a locali e viaggiatori in visita a Piero alla città, manifestando allo stesso tempo un senso civico alla cui condivisione nessun aretino dovrebbe sottrarsi.