SALVATORE
Cronaca

Liberazione di Arezzo, 20 giorni terribili nella stagione del sangue e delle stragi

La difficile avanzata alleata e l’accanita resistenza tedesca nella Seconda guerra mondiale. Truppe di montagna per aggirare il fronte da Lignano

Salvatore

Mannino

Arezzo la prese l’ottava armata britannica il 16 luglio 1944 e, al contrario della città di Alba dell’omonimo racconto di Beppe Fenoglio, non la riperse nessuno. Ma che fatica per liberarla dalle truppe tedesche che l’avevano tenuta fino all’ultimo come un caposaldo difensivo di primaria importanza, anche dopo che gli ultimi fascisti se ne erano andati diretti al nord, dove avrebbero costituito a Besozzo la Brigata Nera Emidio Spinelli (parroco in camicia nera ammazzato dai partigiani. Vale forse la pena di ricordarla, quella prima metà di luglio fatta di paura e di sangue, di tragedia e di stragi, in questo sabato che 78 anni fa fu per la città il giorno decisivo.

Innanzitutto il contesto. Con alcune date che dicono quanto il maresciallo Albert Kesselring, comandante in capo tedesco sul fronte italiano, abbia cercato di rallentare, prorio in corrispondenza di questa provincia, l’ormai inarrestabile avanzata degli Alleati. Obiettivo impedire che gli anglo-americani raggiungessero la Linea Gotica, che correva lungo l’Appennino, prima dell’inverno, dilagassero nella Pianura Padana e potessero attaccare la Germania già dalla fine del ’44. Battaglia d’attrito di cui il territorio aretino fu un teatro tra i principali e che ebbe successo anche perchè per gli Alleati quello italiano era ormai un fronte secondario, dopo lo sbarco in Normandia del 6 giugno che mirava direttamente al cuore del Reich. Il giorno prima, il 5 giugno, era stata liberata Roma e dalla Città Eterna bastarono due settimane per arrivare al Trasimeno, dove si trovava la prima seria linea di resistenza tedesca, la linea Albert che prendeva il nome proprio da Kesseelring. Dunque quindici giorni per un balzo di almeno 150 km e poi, dal 20 giugno al 16 luglio, ben altri 26 per coprire gli appena 50 km fino ad Arezzo lungo la direttrice della Valdichiana. Il che dice bene di quanto lo scontro sia stato accanito.

Non è qui il caso di ripercorrerlo nei dettagli. Basterà dire che in quel mese scarso l’Aretino fu il palcoscenico non solo di una difesa tedesca all’ultimo uomo ma anche dei crimini di guerra delle truppe tedesche in ritirata, fanatizzate, frustrate dalla sconfitta ormai incombente, convinte che gli italiani fossero una razza inferiore e per giunta di traditori. Il 29 giugno, dunque, abbiamo la strage di Civitella (207 morti), il 4 luglio quella di Castelnuovo (altre 200 vittime), il 14 luglio quella di San Polo. Prima, il 18 giugno, in uno sfortunato tentativo di liberazione, erano stati trucidati nel carcere di San Benedetto il capo carismatico dell’antifascismo aretino, il democristiano Sante Tani, il fratello prete, un compagno di lotta e due partigiani del commando chiamato a salvarli. Sempre il 29 giugno erano stati rilasciati a fatica oltre 200 civili radunati nella chiesa della Chiassa Superiore, di cui i tedeschi minacciavano l’uccisione in massa se non fosse stato liberato il loro alto ufficiale rapito da una banda della Resistenza. Aggiungete che Arezzo, bombardata a ripetizione come fondamentale nodo viario e ferroviario fra nord e sud, era ridotta a una città fantasma, abbandonata dai suoi abitanti e avrete il quadro di come furono quei giorni terribili.

Dopo la liberazione di Foiano il 2 luglio e quella di Cortona il 3, le truppe di Kesselring resisterono con determinazione fra Castiglion Fiorentino e Arezzo, forti anche di una conformazione naturale che a Olmo creava una specie di strettoia, coperta dai monti, pressochè insuperabile. Unico modo di aggirarla passare sul crinale di Lignano, Favalto e infine Poti. Ma servivano reparti specializzati. Perciò il comando dell’ottava armata richiamò da Cassino, dove si stava riposando, una divisione neozelandese di soldati di montagna. Toccò a loro, a partire dal 14, dare l’assalto a Lignano e crearsi un varco che rendeva insostenibile la difesa tedesca. Intanto, reparti indiani di Sikh e Gurkah sfondavano da Favalto verso Palazzo del Pero.

Il Cln locale, guidato da Antonio Curina, azionista, aveva pensato di far trovare la città già libera agli Alleati, primo caso in Toscana, con un rudimento di autogoverno già insediato. L’idea era che i partigiani calassero da Poti, ma il rastrellamento tedesco poi sfociato nella strage di San Polo, rese vano il tentativo del comando militare della Resistenza, guidato da Siro Rosseti, futuro generale. Si potè sol infiltrare nel capoluogo un manipolo di partigiani, agli ordini di Aldo Donnini, pure lui futuro generale, che si sistemarono in via Cesalpino e la mattina del 16 luglio si arrampicarono fin sulla cima della Torre del Comune per issarvi il tricolore.

I tedeschi se ne erano andati silenziosamente nella notte. Le truppe britanniche non incontrarono opposizione nell’avanzata da Olmo fino in centro, lungo via Romana, via Vittorio Veneto e il Corso. Davanti al Duomo trovarono il Vescovo Emanuele Mignone ad accoglierli, come racconta Giorgio Spini, ufficiale aggregato all’ottava armata destinato a diventare un grande storico, che descrive l’Arezzo di quel giorno come una Pompei di desolazione. La foto simbolo resta quella di alcuni resistenti (fra loro uno dei fratelli Lebole, Attilio) che festeggiano su un carro armato inglese in pieno centro. Foto falsa, accusa qualche studioso di storia, ma ha poco senso: quasi tutte le foto di guerra sono costruite.

A sera anche la Bbc annunciò la liberazione di Arezzo ad opera dei partigiani della divisione “Pio Borri“. Non fu proprio così e ne fece le spese il locale comitato di liberazione, che riuscì sì a ottenere l’avallo alleato alla giunta composta da tutti i partiti e guidata dal Antonio Curina scelto come sindaco, ma dovettero subire la nomina a prefetto di Guido Guidotti Mori, che era stato il primo podestà fascista, anche se poi convertito. L’inizio di un burrascoso rapporto fra Cln aretino e alleati.

A fine luglio, atterrò all’aeroporto foianese dei Pratoni Re Giorgio VI che ispezionò il fronte, da Monte San Savino fino a Poti, da dove osservò l’ultima resistenza tedesca verso il Valdarno e Catenaia. il sovrano volle visitare anche la “Scala di Giacobbe“, una pista scoscesa che aveva aperto una strada tra le montagne sopra Palazzo del Pero. Realizzata da indiani Sikh e Gurkah oltre che da genieri inglesi. Quel caleiscopio di razze cui si deve la liberazione di Arezzo..