Salvatore
Mannino
Nel settembre 1921, un secolo fa, non c’era in questa città e in questa provincia più traccia di sindacalismo "rosso", quel poco di organizzazione dei lavoratori ancora esistente era ormai nelle mani dei fascisti, in particolare della loro anima più populista, quella del segretario provinciale Alfredo Frilli che da giovane era stato un incendiario propagandista socialista, o ex sindacalista rivoluzionaria, con l’antico compagno dei Rossoni e dei Corridoni, Persindo Giacomellii. L’argomento del giorno, fra l’altro, era la ribellione di Frilli contro Mussolini, cui veniva contestata la pacificazione di agosto con i socialisti. Pura tattica, ovviamente, ma in provincia era difficile capire le strategie del capo del fascismo e altrettanto facile esplodere nell’invettiva : "Non siete più il nostro Duce".
Parrà strano, dunque, alla luce di questo clima, che quella classe operaia ormai rassegnata e vinta fosse stata protagonista appena un anno prima, nel settembre 1920, del momento più alto, almeno nella percezione che ne ebbe l’opinione pubblica, della febbre rivoluzionaria del dopoguerra, l’Occupazione delle fabbriche. Movimento che aveva portato gli operai a impadronirsi per un mese dei principali stabilimenti metalmeccanici anche di Arezzo e del Valdarno. Situazione clamorosa, perchè dava la sensazione, per quanto la direzione nazionale della vertenza fosse in mano ai riformisti della Cgdl (l’antenata della Cgil di adesso) e della Fiom, di un panorama da vigilia dell’Ottobre rosso del 1917 in Russia, lontanissimo a dire il vero dalle intenzioni dei moderatissimi capi del sindacato, che l’occupazione, poi dilagata in tutta Italia, l’avevano ordinata solo come risposta alla serrata delle Offine Romeo di Milano (l’attuale Alfa Romeo).
Il clima però era tutt’altro che rivoluzionario, con gli operai che avevano incassato già più di una sconfitta. A Torino con il fallimento del cosiddetto Sciopero della Lancette alla Fiat (il consiglio di fabbrica rifiutava di appplicare l’ora legale), qui con la disfatta, sempre nel mese di aprile, delle sciopero ad oltranza alla Sacfem. E’ un nome, quest’ultimo, che probabilmente dice poco ai più giovani ma molto alla memoria di quanti il Fabbricone lo hanno conosciuto almeno nella sua fase discendente. Basterà ricordare qui che lo stabilimento, che dava lavoro a 900 persone (oggi non ce ne sono di così grandi) si trovava allora nel quadrilatero fra via Giotto, via Mecenate e via Signorelli, ora occupato dal Parco Giotto e dagli edifici di via XXV Aprile, sorti proprio dopo la demolizione dei capannoni negli anni ’70.
Bene, stando alla relazione dell’allora prefetto Alberto Giannoni, fu proprio la debacle dello sciopero delle Lancette a indurre la dirigenza della Sacfem a tentare di liberarsi, licenziandoli, degli elementi più incendiari. E fu questa pretesa di revanche a creare in fabbrica un clima invivibile, con l’abbandono del posto di lavoro e una fitta sassaiola contro la palazzina della direzione, l’ultima demolita negli anni ’90 fra le polemiche, e i suoi impiegati (in gran parte futuri fascisti). Gli operai, iscritti all’Usi, il sindacato anarchico, tennero duro per dieci giorni, nei quali si parlò persino di occupazione, ma poi furono costretti a cedere su tutta la linea, tornando al lavoro senza condizioni.
Eppure, nonostante si portassero sulle spalle questa Caporetto, furono pronti a rispondere il 2 settembre, pochi mesi dopo, all’appello per l’occupazione delle fabbriche. Avvenne alla Sacfem e anche alla Bastanzetti, altro stabilimento metallurgico del Bastione di Porta Buia di cui resta solo la memoria. Nei giorni successivi l’occupazione si estese anche all’altra grande fabbrica metalmeccanica del Valdarno, la Ferriera di San Giovanni (un migliaio di dipendenti) mentre i minatori anarchici delle miniere di Cavriglia applicavano l’ostruzionismo.
Fu uno straordinario esperimento di autogestione. Nelle fabbriche abbandonate anche da gran parte dei tecnici, gli operai si organizzarono per proseguire la produzione. Il tutto nella neutralità delle forze dell’ordine, fedeli alla linea che veniva dall’ultimo governo Giolitti, anche se Giannoni segnalò al ministero dell’interno come gli occupanti si stessero armando fino ai denti: bombe e persino mitragliatrici (ritrovate nei mesi successivi dai fascisti aretini) prodotte direttamente negli stabilimenti. Particolarmente epica l’occupazione della Sacfem, dove per fiaccare la resistenza il commissario comunale tagliò persino i rifornimenti di grano, cui le maestranze reagirono impadronendosi di due carri ferroviari ben provvisti. Anche le Fs bloccarono i treni dei rifornimenti produttivi, ma i ferrovieri scesi in sciopero li fecero arrivare lo stesso fino alla Sacfem, allora collegata dai binari alla stazione.
Il movimento si esaurì poi con l’accordo nazionale sul controllo operaio mai applicato. Il 28 settembre anche la Sacfem fu sgomberata pacificamente, il 1 ottobre fu la volta della Ferriera. Pareva la vigilia della rivoluzione, era in realtà la Grande Paura che avrebbe orientato l’opinione pubblica borghese e i ceti medi verso il fascismo.