
È il 25 maggio del 1944: scatta l’obbligo di consegnarsi, pena la morte. Le fiamme brillano da Catenaia a Caprese al Pratomagno
Boni
Fu una notte buia di maggio e non erano stelle, non furono lucciole. Fu una notte di maggio e ancora dopo 80 anni, quei bagliori rifulgono nel silenzio della memoria. Nella notte del 25 maggio 1944, le montagne dell’Appennino toscano si illuminarono di fuochi accesi dai partigiani della provincia di Arezzo. Questo gesto simbolico rappresentò una sfida aperta dei partigiani al regime fascista e all’occupazione nazista, un atto di resistenza e di speranza. Il contesto era quello di un’Italia lacerata dalla guerra e dalla dittatura. Il 18 aprile 1944, il regime fascista aveva emesso un bando che intimava ai militari e ai civili "sbandati e appartenenti a bande" di consegnarsi entro dieci giorni, pena la morte.
Il 15 maggio, la Prefettura Repubblicana di Arezzo ribadì l’ultimatum, minacciando la pena capitale per i disertori e i renitenti che non si fossero presentati. In risposta, i partigiani decisero di accendere fuochi sui crinali montuosi, un segnale visibile e inequivocabile di rifiuto e di lotta. Alle 21,30 del 25 maggio, le fiamme brillarono sull’Alpe di Catenaia, su Caprese, sul Monte Favalto, sulle montagne di Arezzo, su quelle del Pratomagno e del Valdarno fino a Cortona. Era un messaggio chiaro: "Venite a prenderci". Questo episodio è stato raccontato da Antonio Curina nel suo libro "Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano", pubblicato nel 1957 e rieditato recentemente da Anpi di Arezzo. Curina, partigiano noto con il nome di battaglia "Bruno", fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Arezzo e, dopo la guerra, sindaco della città. Nel suo libro, descrisse con passione e precisione gli eventi della Resistenza aretina, offrendo una testimonianza diretta e toccante. L’accensione dei fuochi non fu solo un atto simbolico, ma anche un segnale di unità e di determinazione. I partigiani, pur consapevoli dei rischi, vollero dimostrare che la Resistenza era viva e pronta a combattere. E il gesto contribuì a rafforzare il morale della popolazione e a mantenere viva la speranza in un futuro di libertà.
In verità, per contestualizzare l’episodio, bisogna fare un salto indietro nel tempo di alcuni mesi. Dopo l’8 settembre 1943, la Resistenza aretina iniziò a crearsi e fu caratterizzata progressivamente da un’ampia diffusione territoriale e da una composizione variegata: contadini, studenti, ex militari sbandati, giovani renitenti alla leva repubblichina. Erano uomini (e alcune donne) che decisero di "salire in montagna", rischiando tutto per una causa: la libertà dal nazifascismo. Le prime formazioni sorsero già nell’autunno del ’43. Si trattava di piccoli nuclei armati che operavano in clandestinità, raccogliendo armi, sabotando vie di comunicazione, sfuggendo alle retate fasciste. Col tempo, si strutturarono in bande più organizzate. Tra le più note vi furono la Banda "Renzino", attiva nella Val di Chiana, la Banda "Licio Nencetti" sull’Alpe di Catenaia, la Banda "Fanfani" nella zona del Casentino e le formazioni Singaglia, Garibaldine e Giustizia e Libertà nel Valdarno. Il coordinamento tra le bande era spesso difficile: la geografia impervia e la scarsità di mezzi limitavano i contatti. Tuttavia, a partire dal 1944, grazie anche all’opera del Comitato di Liberazione Nazionale provinciale, presieduto proprio da Antonio Curina, si rafforzò la rete organizzativa. I partigiani collaboravano con gli Alleati fornendo informazioni e agevolando l’avanzata verso nord. E nella primavera, al culmine delle azioni di sabotaggio ai danni dei nazisti e del loro esercito, ecco che venne organizzato l’episodio dei fuochi sui monti in contemporanea.
Un gesto potente, che fece si che i tedeschi addirittura sopravvalutassero l’effettiva potenza di fuoco dei partigiani, e in certe zone la risposta nazista fu durissima. La provincia pagò un prezzo altissimo e sanguinoso: rappresaglie, eccidi, deportazioni con oltre 3000 vittime. Ma grazie al coraggio di questi uomini e donne, il 16 luglio 1944 Arezzo fu liberata. E quei monti, che avevano dato riparo ai partigiani, divennero simboli indelebili di una libertà conquistata con il fuoco e con la dignità.
Oggi, a distanza di oltre ottant’anni, l’episodio dei fuochi sui monti dell’Appennino Toscano continua a essere ricordato e commemorato. Ogni anno, il 25 maggio, anche oggi, la provincia di Arezzo e l’Anpi organizzano eventi e incontri in tutto il territorio per rievocare quell’atto di coraggio e per trasmettere alle nuove generazioni i valori della Resistenza. È un momento di riflessione e di memoria, per non dimenticare il sacrificio di chi ha lottato per la libertà. In un’epoca in cui le sfide alla democrazia e ai diritti umani sono ancora all’ordine del giorno, l’esempio dei partigiani aretini e dei loro fuochi accesi nella notte rimane una luce di speranza e di determinazione. Luci che ottantuno anni fa non furono lucciole e non furono stelle. Ma fuochi contro l’invasore.