
Aveva presentato una istanza per l’ottenimento di un incremento dei quantitativi di rifiuti massimi trattati e stoccati la Cobat di Sansepolcro. E questo nonostante secondo l’accusa alla data di comunicazione dei lavori del giugno del 2021 permanevano una serie di carenze. "Continuando a rappresentare uno stato dei luoghi non corrispondenti al vero e in particolare ad attestare l’avvenuta esecuzione di opere mai realizzate", sostiene il giudice che ha avallato le richieste della procura aretina. Insomma, potrebbe seriamente essere in bilico dopo il sequestro dell’intero impianto e le accuse di violazione al codice dell’ambiente la richiesta di ampliamento presentato dalla Cobat di Sansepolcro che ha dovuto chiudere i cancelli venerdì su provvedimento del Gip Giulia Soldini.
Una misura giustificata secondo il giudice dal fatto che vi sia "il fondato sospetto che la libera disponibilità dell’impianto e dell’altra area possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato", si legge nel provvedimento.
Il sorvolo aereo dell’impianto, l’acquisizione dei provvedimenti rilasciati dalla Regione, il supporto tecnico dell’Arpat. Eccola l’indagine approfondita dai Carabinieri della Forestale che ha portato al sequestro di un impianto che si occupa della gestione di rifiuti e della produzione di sottofondi stradali in due grandi aree. La prima adibita alla produzione di conglomerato bituminoso e allo stoccaggio l’altra alla gestione dei rifiuti. Secondo le indagini dirette dalla procura, sono molte le difformità tra quanto autorizzato e prescritto dalla Regione e quanto effettivamente svolto dalla Cobat. Ad esempio secondo l’accusa l’area adibita allo stoccaggio e alla lavorazione dei rifiuti era 6mila metri quadrati in più rispetto a quanto indicato dall’azienda. "Superfici non pavimentate", si legge nel decreto di sequestro. Così come più estesa, secondo la procura, era l’area dedicata alla gestione dei rifiuti e quella delle materie prime. Oltre il limite lo stoccaggio complessivo di rifiuti speciali costituiti da bitume ed inerti. Più estesa anche l’area adibita al deposito dei derivati dal recupero del fresato. Insomma, dalla ricostruzione pare emergere lo stato di un impianto che era cresciuto molto più velocemente rispetto all’iter burocratico. E chissà che in tutto questo, non influisca anche un boom esteso di lavori pubblici e privati negli ultimi mesi. L’accusa più grave della quale l’azienda dovrà rispondere è quella di aver immesso rifiuti liquidi nel sottosuolo e acque superficiali, in un’area priva della "pavimentatura e del sistema per la raccolta e trattamento delle acque meteoriche". Secondo il giudice "la dispersione dei reflui derivanti dall’azione delle acque meteoriche", avrebbe provocato nelle acque superficiali "il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione per il parametro di benzene".
Nell’agosto del 2021 le autorità competenti hanno inoltre accertato come l’azienda avesse stoccato a cielo aperto 3 cumuli di preparato per conglomerato bituminoso contenente amianto "di tipo crisotilo allo stato polverulento omettendo di adottare le necessarie misure per la copertura determinando una dispersione diffusa e incontrollata nell’ambiente circostante".
Ora la palla passa alla difesa affidata all’avvocato Roberto Alboni che contesta la ricostruzione dell’accusa ed è pronta ad avanzare istanza di dissequestro al tribunale del riesame.