CLAUDIO
Cronaca

Il patriarcato che lasciava le donne senza diritti. Lavoro, studio e voto: sempre un passo indietro

Il boom economico degli anni Venti del secolo scorso portò alla nascita delle fabbriche ma per molte il posto restò un miraggio

Il patriarcato che lasciava le donne senza diritti. Lavoro, studio e voto: sempre un passo indietro

Il patriarcato che lasciava le donne senza diritti. Lavoro, studio e voto: sempre un passo indietro

Repek

Patriarcato. È una parola della quale, probabilmente, non conoscevano il significato. Ma, certamente, ne pagavano interamente il prezzo. Sono molte ragazze nate negli anni Venti del secolo scorso nelle campagne e nelle montagne dell’Aretino. Il senso della loro adolescenza? Aiutare in casa, imparare a cucire per la famiglia, badare a galline, pecore e maiali, andare a lavorare ad appena 12 anni in famiglie lontane e sconosciute. Una cortissima lista di diritti e di opportunità: 3 o 5 anni di scuola elementare. Il senso della loro gioventù? Sfuggire alle bombe della guerra e alle aggressioni dei soldati di ogni esercito e di ogni colore, sopravvivere alla fame. Cessata la guerra e finita (o quasi) la miseria, si erano illuse di poter avere una vita normale e gli stessi diritti degli uomini.

Non solo al voto ma anche ad un lavoro scelto e non imposto. In realtà, nel momento del boom economico, furono considerate ormai troppo anziane per entrare nelle nuove fabbriche, simbolo di trasformazione e di emancipazione. Lavoro scelto no ma quello imposto si. Erano ancora sufficientemente giovani per continuare ad occuparsi non solo dei figli ma anche dei genitori e dei suoceri, spesso ex mezzadri, che la società aveva abbandonato al loro destino con misere pensioni. E così hanno continuato a fare, anche se in condizioni migliori, quello che avevano fatto per tutta la loro vita: preoccuparsi della famiglia e lavorare dentro e fuori casa. Cucendo, andando a servizio, pulendo le scale dei condomini. Alcune delle loro storie. "La femmina l’aveva e il maschio era morto. Mio padre faceva i muri lungo le vigne e la mattina in cui nacqui, era al lavoro nei campi. Andarono a chiamarlo e lui domandò: “che è, un maschio o una femmina?”. Gli risposero che era una bambina. “Allora non torno”. Non venne nemmeno a mangiare e si fece vivo soltanto la sera tardi quando era ormai buio". Era il 26 aprile 1923. Pia inizia così la sua vita, considerata nemmeno degna, agli occhi di suo padre, di abbandonare la zappa con qualche ora di anticipo.

La scuola c’era ma per i maschietti. Giuseppa: "Io ho studiato fino alla quarta elementare perché a Bagnoro si arrivava fino a quella classe. Per fare la quinta sarei dovuta andare ad Arezzo ma i miei decisero che solo i maschi lo avrebbero fatto. Il motivo? Saremmo dovute andare fuori casa e magari tornare, quando era inverno, con il buio. Per una ragazza non era possibile". La guerra provoca paura ben più grandi del buio e sono, ancora una volta, di segno maschile. Giuseppina: "un tedesco andò a dar noia ad una ragazza in un campo. Voleva giocarci con questa citta ma lei lo ammazzò.

Non sapemmo come ma lo ammazzò e tutti in zona si prese paura che ne venissero altri per fare rappresaglie". Cambiarono gli eserciti ma l’angoscia rimase. Santa: "quando passò il fronte, arrivarono gli inglesi e si accamparono non lontano da noi. Una ragazza transitò lì vicino in bicicletta. Dal campo scappò un nero e la prese. Lei comincio a urlare e allora arrivò uno dei capi di quel soldato. Lui aiutò la ragazza, la fece salire su una jeep e la riaccompagnò a casa". Anche l’amore vede le donne stare nell’angolo. Rosa ricorda la conoscenza del suo futuro marito: "Era un bel ragazzo ma la mamma mi diceva sempre: “se ti vedo con qualche uomo, ti strozzo. Non ci devi stare con gli uomini”. Avevo paura della mamma ma questo ragazzo mi scriveva sui sassi vicino a casa. Sulle pietre piane e lisce incideva: “ti ho salutata”. E poi andava a casa sua". La fine della guerra vuol dire anche l’ingresso nella cabina elettorale ma ad alcune condizioni. Giuseppa: "noi donne di casa ci andammo tutte e seguimmo l’indicazione che ci diede il babbo.

Noi giovani di allora non eravamo mica come quelle di oggi: non sapevamo nulla, tantomeno di politica e di partiti. Facemmo quello che ci disse il babbo". La politica interessa poco perché la fatica quotidiana è spesso tremenda. Gli uomini iniziano ad avere diritti nei luoghi di lavoro. Le donne a casa no. Giuseppina: "quando ancora si stava a Molinelli, salivo a piedi e scalza fino a Poti, in cima alla montagna, al convento delle suore che d’estate ospitavano in colonia una quarantina di ragazze romane. Il lavoro me lo aveva trovato un prete che sapeva che avevo il marito malato e tre figlioli da crescere. Io andavo ad aiutare le suore a fare le pulizie. Prima di accettare lo dissi a mio marito che era a letto malato.

Mi disse che se si fosse sentito meglio, mi ci avrebbe portato in Lambretta ma non accadde mai perché andò sempre peggio. Per arrivare a Poti mi ci voleva quasi un’ora e mezzo e lungo la strada, per fare qualche soldo in più, lavoravo anche a maglia, facevo le berrette. Andavo scalza perché le ciabatte che avevo erano rotte e mi facevano male ai piedi". Per un periodo lavora anche al posto del marito ammalato pur di non fargli perdere il posto. Giuseppina, come le altre ragazze, cade infinite volte e infinite volte si rialza. Da sola, con infinito coraggio e con la certezza che nessuno l’avrebbe aiutata.