
Carolina Lombroso e il marito Eugenio Calò
I passi del dolore, i passi pesanti. I primi sono quelli che porteranno anche il sindaco Ghinelli e il vescovo Migliavacca a varcare il cancello di Auschwitz, oltre quella scritta "Il lavoro rende liberi", velo di falsa saggezza sul trionfo dell’orrore. Gli altri erano i passi di chi percorreva le poche decine di metri dai vagoni della morte al campo di concentramento. "No, campo di sterminio" corregge giustamente Liliana Segre ogni volta che senta quelle parole. E tra quei passi ce n’erano anche diversi che si erano incrociati con Arezzo. Su 675 ebrei deportati dalla Toscana, risulta che una settantina vivevano o erano stati arrestati qui da noi.
L’elenco straziante di quei nomi è in un libro che non lascia nulla ai fronzoli ed entra nella pelle: "Il libro della memoria", Liliana Picciotto, tra giustizia e rigore scientifico, da anni li ha messi in fila. Sono soprattutto quelli dei quali si è avuta conoscenza e che in quel campo trovarono la morte. Poche righe per ciascuno, un fiume di nomi e cognomi le cui vite si spezzarono davanti a quel cancello. Tra gli aretini di sicuro i figli di Carolina Lombroso ed Eugenio Calò: una coppia simbolica per la loro fine. Lei veneziana, poi residente ad Alessandria, quindi trasferita nella di Arezzo col marito. Deportata ad Auschwitz, partorì nel treno della morte il quarto figlio, tutti e quattro finiti con lei nelle camere a gas poco dopo l’arrivo.
Lui sarebbe stato uno dei partigiani protagonisti della guerra di liberazione di Arezzo, morto con le altre vittime dell’eccidio di San Polo. Passi pesanti e lacrime. Ad Arezzo erano stati arrestati Ignaz Birkenfeld e Antonia Ehrenwerd, lui slavo e lei austriaco. Accomunati dai tentativi di salvarsi, dal carcere di Firenze, dal campo di Fossoli.
E poi dalla morte ad Auschwitz, nel caso di lei senza neanche poterne ricostruire la data. Anche loro, come Liliana Segre e il padre Alberto. Accomunati dallo stesso vagone, nel loro caso il convoglio 13, numeri che come i passi galleggiano con la loro semplicità sulla tragedia più grande della storia. Un ebreo tedesco era Heinrich, pochi elementi, l’arresto a Bibbiena, sulla via di una salvezza che gli crollò addosso.
O ancora Enrico Sonnino catturato a Poppi, il suo convoglio era il 10 nel maggio del 1944, identico l’epilogo. Non tutti i percorsi si incrociavano con il cancello maledetto, con Auschwitz, ma con le altre località che disegnano la mappa dell’orrore. E alle quali scamparono non solo i superstiti, pochissimi, di quell’esperienza: ma anche quanti furono salvati anche ad Arezzo dai coraggiosi che trovarono la forza di dire no. Come la famiglia di Umberto Franchetti, "nascost" tra le fronde e la boscaglia della Verna, da chi, a Giampereta e non solo, gli fece da ombrello e da paracadute. Anche la famiglia Lusena era stata accolta e difesa: ma non da tutti. Una storia lacerante, un uomo di 43 anni, lei di 29, la figlia di due e mezzo. Morti nel dicembre 1943, uccidendo la figlia nel sonno e poi suicidandosi. Tra le ipotesi quella che qualcuno volesse impadronirsi dei loro beni e che per questo riuscì a convincerli di essere braccati dai nazifascisti. Fino al crollo, fino alla tragedia finale. Lontana ma in realtà vicinissima allo strazio di quel cancello.
Lucia Bigozzi