Alberto
Nocentini
Gazzillòro, azzillòro, arzillòro, varianti chianine che avvicinandosi alla città diventano bobodòro e bacodòro: sono tutti nomi di quel coleottero provvisto di una livrea verde lucente con riflessi dorati, che gli zoologi hanno battezzato come Cetonia aurata. È facile da trovare, annidato dentro ai bocci delle rose o attaccato alla frutta matura e la sua colorazione vivace è la causa principale della sua popolarità, che si riflette nella quantità e nella varietà delle sue denominazioni dialettali. L’Atlante Lessicale Toscano ne registra ben 75, di cui 28 nella sola provincia d’Arezzo; molte contengono la parola òro, come quelle abbiamo citato, combinata con baco e con bobo, termini generici per ‘animaletto’, oppure coi discendenti del latino asilus ‘assillo, insetto ronzante’, che si presenta anche nella forma ridotta zilla.
La grande e insolita varietà di denominazioni ha una spiegazione semplice: la dimestichezza con questi animaletti fa parte delle esperienze infantili (o almeno ne faceva parte fino alla mia generazione) e resta viva solo nel lessico familiare; la cetonia non è oggetto di scambio e quindi di commercializzazione, né argomento di trasmissioni televisive di modo che non c’è un termine standard usato per indicarlo, oltre al nome scientifico. A questo proposito posso citare la mia esperienza personale di ricercatore. Trovandomi una sera d’estate nel bel mezzo di una festa a Carda, frazione montana sul Pratomagno casentinese, decisi di approfittare della presenza di tutti gli abitanti del luogo per fare un’inchiesta-lampo sulla cetonia e verificare quale fosse il nome locale. Tenendo conto che il numero dei residenti locali non supera il centinaio, i nomi che raccolsi nel giro di poco più d’un’ora sono cinque: moscon d’oro, ronzone, ronzamòro, zilla (tutti con riscontri più o meno diffusi) e l’isolato caranzolo.
Questa popolarità, questa ricchezza di denominazioni, però, come spesso succede, non ha portato fortuna al suo detentore. Uno dei tanti passatempi in uso fra i bambini della mia generazione era quello di legare una zampina del coleottero con un filo di refe e farlo volare correndogli dietro a gara fino a quando la zampina non si staccava. Sorte crudele, ma sempre preferibile a quella che toccava a un altro coleottero volante del genere zigena, detto popolarmente paglianculo o palinculo, nome iconico che sintetizzava in un composto il destino che gli era riservato. E dire che noi eravamo bambini buoni.
Fra i nomi della cetonia, che sarebbe perfino noioso elencare, gazzillòro è quello che ha avuto maggior fortuna: come metafora è stato usato per indicare quei giovanotti che si danno da fare intorno alle ragazze ed è finito nel detto proverbiale tardi parlasti gazzilloro mio, riservato a chi si fa avanti o protesta quando ormai non c’è più niente da fare. Le circostanze che hanno originato il detto sono note: un contadino colse un fico maturo senza avvedersi che vi era attaccata una cetonia e se lo cacciò in bocca tutto intero; sprofondata nella gola, la cetonia emise il ronzio della disperazione, ma il contadino mandò giù fico e insetto pronunciando la sentenza passata in proverbio: "Tardi parlasti, gazzilloro mio!"