
Chiara Castellani durante una delle sue missioni umanitarie in Congo
Ci sono luoghi, che non compaiono sulle mappe, dove la terra si sgretola sotto la polvere e i corpi cedono alla fame e alla sofferenza. È lì che Chiara Castellani ha scelto di andare: un luogo dimenticato dal mondo, dove ha trovato sé stessa e dato forma al suo sogno più grande: "Ieri verso mezzogiorno (…) è successo un miracolo, o meglio quel miracolo (…) abbiamo aperto un rubinetto nell’ospedale ed è sgorgata acqua pulita. Mentre toccavo quell’acqua limpida e fresca (…) ho sentito le lacrime agli occhi". Per oltre quindici anni aveva scritto, pregato, bussato a ogni porta pur di portare acqua ed elettricità all’ospedale di Kimbau. La forza di quel traguardo si comprende leggendo il suo epistolario "Sono nuovamente me stessa (1991-2014)". Quelle lettere, indirizzate a parenti, amici e colleghi, ci riportano all’inizio della sua scelta. Chiara Castellani nasce a Parma nel 1956. Diventa medico, si specializza in ginecologia e ostetricia e negli anni Ottanta parte per il Nicaragua, un Paese devastato dalla guerra civile. Impara che curare non significa solo operare, ma anche inventare programmi sanitari, mettere insieme comunità, condividere la sorte dei più poveri. Dopo sette anni e una breve esperienza in Ecuador, il suo destino la porta ancora più lontano: in Congo. Quando arriva a Kimbau, nel 1991, le affidano la direzione di un ospedale ridotto a un rudere: manca tutto, acqua, elettricità, strumenti. Attorno, un popolo affamato e malato. Qui malaria, tubercolosi e Aids non sono statistiche, ma bambini febbricitanti, madri che partoriscono senza assistenza, corpi consunti. È qui che sceglie di restare, anche se la grave instabilità politica la costringe a rientrare in Italia. Ma appena le è concesso, torna, perchè è lì che Chiara sente di essere davvero chi vuole essere. Il 6 dicembre 1992 la vita la mette alla prova. L’ambulanza su cui viaggia si ribalta: "Ho messo il braccio per proteggere la testa. L’ho sentito bruciare, stritolare, maciullare (…) mi sembrava penzolasse in un buco senza fine". A Kinshasa le amputano il braccio destro. Poi la riabilitazione in Italia, una protesi. Molti si sarebbero fermati. Lei no: "La persona che vi scrive oggi, dopo un breve silenzio (…) è una persona finalmente, dopo molti mesi di difficoltà e sofferenza, totalmente felice". Stare dove la vita è più fragile e provare a sostenerla: questa è l’essenza della sua missione. "Ci avvisano di una ritenzione di placenta (…) capisco che la mano di Sr. Ramona è troppo grande per un collo già chiuso. Io guardo la mia manina-guanti N. 6: è l’unica che può entrare e lo so. Ma ora è la sinistra, e mi manca una destra per palpare esternamente. (…) Ma sarà ancora così facile anche per me?>. Nonostante il limite fisico, Chiara sa che non è il corpo a decidere, ma la determinazione, e riesce a intervenire: <Sono ancora in grado di farla una PL al primo tentativo, almeno finché anche loro impareranno a farla…>. Portare acqua ed elettricità all’ospedale, formare giovani medici, creare legami tra scuole congolesi e italiane: i suoi desideri più grandi hanno preso vita proprio lì, dove tutto sembrava impossibile: <... voi non potete immaginare cosa significa un’epidemia di morbillo qui: i bambini muoiono come mosche nei villaggi, e troppe volte i nostri sforzi sono inutili (…) già due volte mi sono trovata impotente, a seguire un respiro che si spegneva, con la vista obnubilata dalle lacrime>. Ferita nel corpo, ma mai nello spirito, Chiara ha continuato a far vivere i suoi sogni in quella terra che è diventata la sua casa.