SIMONE DE FRAJA
Cronaca

Campaldino riletta oltre il mito romantico La vera storia della battaglia con Dante

Non fu la causa della decadenza aretina. Lo scontro militare, i ghibellini aretini a un passo dal sopraffare i guelfi fiorentini. Poi il ribaltone

Simone De Fraja

I

Innegabile l’infausto esito della battaglia di Campaldino per i Ghibellini e per Arezzo; una battaglia importante, certamente, ma che proveniva da altrettante fondamentali battaglie fauste per i Ghibellini: Tagliacozzo e Montaperti. Il fallito subitaneo assedio della città di Arezzo ed episodi di poco successivi, evidenziano tutt’altro che un quadro di immobilismo delle sorti politiche e militari della città, contrariamente ad una certa “vulgata” in parte persistente ancor oggi. Basti pensare a tutta la letteratura romantica, venata di anacronistico revanscismo storico, che ha alimentato anche la leggenda di Ippolita degli Azzi, l’eroina leggendaria e mitologica, che difese le mura di Arezzo all’indomani della battaglia. La stessa vena corre anche in alcune novelle firmate dalla Perodi, calate in un Casentino onirico e neo-goticheggiante.

Ma, forse, il vero “successo” storiografico della battaglia di Campaldino, a ben vedere, più che a ragioni di ordine strettamente militare, deriva dal fatto che ad essa sarebbe stato presente Durante Alighieri, Dante; ciascuno di coloro che se ne sono interessati ha tenuto a mettere in evidenza elementi diversi legando le gesta dei valenti cavalieri con le immortali terzine dantesche.

Del resto non si sottrae al fascino anche la recente pubblicazione di Kelly DeVries dal suggestivo titolo originale “The battle that made Dante” che non può non lasciare trasparire il legame che continua a porre il “fenomeno Campaldino”, all’interno di un intricato gioco di specchi il cui polo è proprio la presenza di Dante.

Una certa tradizione storiografica, mista alla vulgata, si è alimentata dei sentimenti di patriottismo postunitario, di entusiasmi filomedioevali del Novecento cui tendono anche le corenti architettoniche; antichi ideali si specchiano anche nelle armi dell’esercito di Vittorio Veneto, del Piave, dell’Isonzo e del Carso. Alla rivalutazione del periodo, degli eventi contribuì senza dubbio anche la “corrente dantista”, ben collocata nel clima culturale del momento, alimentata anche dagli studi e personalità della allora Reale Accademia Petrarca sulla scia delle prestigiose riviste, nazionali, come “Studi Danteschi”.

Défaillances, o “malacapitaneria”, per dirla con il Villani, vennero comunque poste in essere da entrambi gli schieramenti, Guelfi e Ghibellini, in quei giorni di giugno del 1289 e avrebbero potuto condurre ad esiti militari e politici diversi.

Solo dopo una settimana dalla battaglia i Guelfi decisero di muovere verso Arezzo per prendere la città “chè si sperava con poca fatica l’arebon avuta della quale però i Fiorentini non sanno raccogliere tutti i frutti”, chiosa Dino Compagni.

Lo stesso rischio di agguato in cui caddero i Senesi ed i Guelfi collegati nell’episodio delle “Giostre del Toppo”, venne corso nuovamente dalle schiere dei Fiorentini quando affrontarono le vie del Pratomagno per giungere a Campaldino quando, annota il Compagni, i Guelfi “passarono per Casentino per male vie; ove, se avessono trovati i nimici, arebbono ricevuto assai danno: ma non volle Dio”.

Inoltre la riflessione del Barone de’ Mangiadori per cui, secondo il solo Compagni, le guerre ormai “vinconsi per stare bene fermi”, pare solo apparentemente innovativa.

La cavalleria aretina si dovette schiantare, impiegando tutta la velocità di una cavalcata appesantita dalle armi, contro un ostacolo sostanzialmente fisso e lo schianto fu talmente violento che, scrive il Villani, “la schiera grossa rinculò buon pezzo del campo”. Ciò è quanto dovette accadere a buona parte degli armati guelfi “che per una decisione poco felice dei capitani ricevettero l’urto da fermi”, scrive Alessandro Barbero; egli si chiede, inoltre, se ciò possa essere accaduto anche a Dante che si trovava, ad assistere all’impatto, sebbene sulla sua cavalcatura: “statisticamente, dovremmo pensare di sì, e in ogni caso si capiscono il “gravissimo pericolo” narrato dal Bruni Aretino e la “temenza molta” confessata dallo stesso Dante”.

Probabilmente il Barone dei Mangiadori ebbe l’idea, verosimilmente mutuata da altre esperienze, vincente e premiante. Tuttavia l’impiego di carri in combattimento era in realtà diffuso nel mondo comunale italiano dal secolo XII; se si volesse ritenere il consiglio del Mangiadori come risolutivo per la battaglia di Campaldino, basti ricordare come l’impiego di carri fosse conosciuto e consigliato anche dalla trattatistica e diffuso dal testo di Vegezio tradotto in volgare, proprio in quegli anni, dal fiorentino Bono Giamboni.

Licenze dantesche ineguagliabili a parte, pare anche interessante il giallo della fine del corpo di Bonconte poeticamente morto in armi e tra le acque dell’Archiano, torrente ben più ampio del Sova ma distante meno di due chilometri da Campaldino. Potrebbero esserci state molte più probabilità, seppur meno eroiche, che il corpo di Bonconte fosse finito nel greto dell’Arno, lungo il piano della battaglia oppure, più verosimilmente, che lo stesso corpo sfigurato e disperso nella mischia fosse divenuto irriconoscibile, almeno per i più.

Che dire, inoltre, delle misconosciute sorti dei corpi dei dignitari aretini rimasti sul campo?