Salvatore Mannino
Cronaca

Bar e ristoranti, scatta la corsa di massa all'asporto per resistere

Pagano un conto di 10 milioni. Cronaca dell’ultimo giorno di semilibertà: in strada non c’è il clima dell’emergenza. Happy Hour fino in fondo mentre al S.Donato si muore

L'ultimo giorno dei bar

Arezzo, 11 novembre 2020 - L’ultimo caffè in tazzina non è l’utimo caffè. Già, scatta il semaforo arancione, ma c’è sempre un’ancora di salvezza per evitare di riprecipitare nel burrone del lockdown duro di primavera, quando anche il nero bollente, per non dire cappuccino e cornetto, era un pio desiderio.

Si chiama asporto, take away se vi piace l’inglese, e da stamani, a banconi inattivi e tavolini vietati, lo adotterà almeno l’80-90 per cento dei 1200 bar aretini, a cominciare da quelli del capoluogo. Un modo per salvare il salvabile dall’ultima stretta del governo, quella che ha retrocesso la Toscana in zona di rischio medio-alta.

Vale anche per ristoranti, pizzerie e trattorie, che sono 500, la metà almeno dei quali continua, ora che è vietato anche il pranzo, con l’asporto o con la consegna a domicilio. Il che non toglie che il conto del giro di vite continuo che va avanti da marzo, con la parentesi da giugno a ottobre, sia pesante: 10 milioni di euro in fumo solo nell’Aretino, rielaborando le stime nazionali prodotte da Confcommercio.

Proviamo a capire come. Gli stop a ripetizione sono costati finora 18 milioni, fra utili persi e costi sostenuti. I due decreti rilancio e ristori ne stanno riportando nelle tasche di baristi e ristoratori un po’ meno della metà, 8. Il resto, i dieci milioni appunto, è perdita, alla quale va aggiunta quella che si profila adesso.

Al minimo due settimane (ed è un’ipotesi molto ottimistica, che prevede l’immediata risalita dalla zona arancione), quindi almeno altri 5 milioni bruciati. Gli aretini, intanto, vivono senza affanni la loro ultima giornata di libertà, l’ultima senza autocertificazione per superare i confini comunali e regionali, l’ultima nella quale nei paesi spezzati a metà sia possibile passare da un lato all’altro della piazza principale (da una parte Perugia, dall’altra Arezzo) senza rischiare una multa se mancano i comprovati motivi di necessità.

A mezzogiorno, la strada spia lungo la quale si incrociano tutti i movimenti, ossia il Corso, ha l’atmosfera normale di un qualsiasi giorno feriale. Non c’è l’affanno di dove fare tutto di corsa prima che si accenda il semaforo arancione, ma non c’è neppure il vuoto di marzo e aprile, quando erano tutti rintanati in casa.

Ci si abitua persino all’emergenza o forse non tutti realizzano ancora quanto il momento sia delicato, con gli ospedali che reggono ma gemono e i contagi che diventano lo stillicidio quotidiano dell’undicesima peggior provincia italiana per numero di positivi. Piazza Grande è quasi deserta, per mancanza di turisti, anche se i ristoranti sono tutti aperti, San Francesco non è quella affollata di domenica ma presenta il volto di un martedì qualsiasi.

I locali non mollano fino all’ultimo, coi tavolini che hanno i loro aficionados fino all’ultimo pranzo possibile (la sera, si sa, la cena è già oltre lo stop delle 18). Chiuso solo il Caffè dei Costanti, «transatlantico» troppo costoso per reggere solo con il take away. La gente è un po’ disorientata, non tutti hanno capito le regole della zona arancione, qualcuno nei negozi domanda se restano aperti, confondendoli con i pubblici esercizi.

Poi, nel pomeriggio, l’ultima vasca lungo il Corso e l’ultimo happy hour, con i caffè che servono aperitivi fino alle 18 a una clientela che (sia incoscienza o sia coraggio) vuole consumare finchè si può. Tavolini pieni, discorsi malinconici: ma da domani come si fa? Baristi e camerieri rasicurano per quanto si può: con l’asporto vi serviamo lo stesso.

Qualcuno trova persino la forza di scherzarci sopra: «Da domani preparo solo Negroni (il cocktail più famoso al mondo Ndr), il caffè non rende abbastanza». Un paio di chilometri più in là, all’ospedale San Donato, si continua a soffrire. E a morire