
Il garante regionale dei detenuti sulla casa circondariale di via Garibaldi: "Ha buone caratteristica ma è inaccettabile che ci siano celle fuori uso per le porte troppo piccole".
"Carceri troppo affollate, bisogna fermare i suicidi". È l’allarme lanciato dal presidente Mattarella. Una ferma denuncia di cui abbiamo parlato con Giuseppe Fanfani, garante dei diritti dei detenuti della Toscana.
Avvocato Fanfani, il presidente della Repubblica Mattarella ha lanciato un appello accorato sulla situazione carceraria. Condivide la sua preoccupazione?
"Assolutamente sì. Il suo discorso ha acceso un faro dove da anni regna il buio. La realtà delle carceri italiane è drammatica e nota da decenni. È il risultato di un abbandono sistemico, che ha tradito completamente la riforma dell’ordinamento penitenziario. Oggi, quel fallimento si somma a una preoccupante mancanza di sensibilità generale verso il mondo detentivo".
Che valutazione dà del carcere di Arezzo?
"San Benedetto è tra i migliori. È vero, mancano spazi, e una parte ristrutturata è ancora chiusa per problemi tecnici assurdi: hanno speso milioni e poi si sono accorti che le porte erano troppo strette. Da anni è tutto fermo. Ma il carcere è ben inserito nel tessuto urbano e questo facilita il reinserimento. Gli operatori conoscono i detenuti per nome, c’è un rapporto umano. È un modello da tutelare".
E la situazione dei lavori? Ci sono tempistiche di ripresa?
"Assolutamente no. I lavori sono bloccati da anni. Non si sa se riprenderanno, né quando. Ho già detto che scriverò una lettera durissima al Ministero e alla Corte dei Conti. È inaccettabile sprecare denaro pubblico così. E il risultato è che i detenuti sono tutti ammassati in una sola ala, aumentando l’affollamento e il disagio".
Quali sono, concretamente, le criticità più gravi che sta riscontrando, in generale?
"Il primo problema è il sovraffollamento. Le celle spesso non garantiscono nemmeno i 3 metri quadri a persona. Pensi a cinque detenuti stipati in una stanza di 15 metri quadri, senza condizionatore, con questo caldo. È un manicomio. A Sollicciano, struttura costruita con una forma parabolica che raccoglie il calore da mattina a sera, la situazione è insostenibile".
E oltre lo spazio fisico, quali altri limiti esistono nel sistema?
"Manca un percorso serio di rieducazione e reinserimento. La Costituzione lo prevede, ma la realtà è ben diversa. Se chi esce dal carcere torna peggiore di come è entrato, allora il carcere ha fallito due volte: con la società e con la persona. Infine, manca l’umanità che significa rispetto, educazione, possibilità di studiare, di mantenere affetti. Anche l’affettività è un diritto: la Corte Costituzionale, con una sentenza del 2024, ne ha sancito l’obbligo. Non si parla solo di sesso, ma di contatto umano, famiglia, amicizia. La dignità della persona passa anche da lì".
Che succede in Toscana? Le carceri della regione come si collocano in questo contesto?
"Ci sono strutture con forti criticità – Sollicciano, Prato, Pisa, Livorno – e altre più virtuose, come Gorgona e Pianosa, dove i percorsi lavorativi e il modello ‘aperto’ funzionano. I piccoli istituti, poi, sono i migliori: lì il detenuto ha un volto, un nome. I suicidi sono praticamente assenti, ed è un dato che parla da sé".
Qual è la responsabilità della politica in tutto questo?
"Enorme. Manca il coraggio. Parlare di detenuti non porta voti, quindi molti preferiscono tacere o adottare politiche securitarie che piacciono all’elettorato. Ma è più facile dire ‘buttiamo via le chiavi’ che affrontare seriamente una riforma. La verità è che il carcere dovrebbe migliorare le persone, non peggiorarle".
In passato, ad Arezzo, ci sono state esperienze significative di inclusione…
"Sì, a San Benedetto si è sempre cercato di costruire un ponte con la città. Collaborazioni con associazioni, attività culturali, formazione. È un carcere che funziona anche perché è vicino alla comunità, e questo fa la differenza. Un carcere isolato – come San Gimignano – ha molte più difficoltà nel creare percorsi di reinserimento".
Una riforma è possibile, o siamo condannati a convivere con questa realtà?
"È possibile, ma serve volontà. Servono risorse, sì, ma anche un cambio di mentalità. Bisogna smettere di pensare che il carcere serva solo a punire. Serve a restituire alla società persone nuove. Se non ci crediamo, la colpa non è solo del sistema: è nostra".