CHIARA CASELLI
Cronaca

Quell’ostinato "Vincerò". Un gran finale nel foyer. Perché le stelle brillano anche sotto le pioggia

Un cast stellare, come mai Torre del Lago negli ultimi decenni aveva saputo sfoggiare, non certo da meno di...

Un cast stellare, come mai Torre del Lago negli ultimi decenni aveva saputo sfoggiare, non certo da meno di...

Un cast stellare, come mai Torre del Lago negli ultimi decenni aveva saputo sfoggiare, non certo da meno di...

Un cast stellare, come mai Torre del Lago negli ultimi decenni aveva saputo sfoggiare, non certo da meno di quelli dei gloriosi anni ‘70, quando Domingo e Pavarotti, la Ricciarelli e la Kabaivanska erano di casa. Sul palcoscenico del Gran Teatro Puccini, sotto la tradizionalissima e coinvolgente regia di Alfonso Signorini e la raffinata direzione del maestro Renato Palumbo, sono stati due i debutti: quello del tenore Gregory Kunde (71 anni e non sentirli e un’enorme carriera di cui non si vede la fine) nel ruolo di Calaf, e quello dell’altrettanto inossidabile Michele Pertusi, come Timur.

Ma terminato il secondo atto, si è affacciato a turbare l’incanto un ospite non del tutto inatteso e non certo gradito: la pioggia, che ha spalancato la porta senza bussare. E allora, dopo quasi un’ora di trepidante attesa, una parte del pubblico ha desistito e se n’è andata, ma in molti si sono accalcati nel foyer con ostinazione e tutta la speranza che la soluzione del primo enigma posto al principe ignoto da Turandot incoraggiava a coltivare. Il coro si è radunato sulla parete che immette ai camerini degli artisti, la maestra collaboratrice Michi Tagasaki si è seduta al pianoforte, e prima Calaf, poi Liù e infine Turandot hanno cominciato ad aggirarsi in un recinto di pochi metri quadrati sotto lo sguardo del direttore artistico Angelo Taddeo. Un cenno del maestro del coro, Marco Faelli, e via. Kunde, altero e possente, ha confermato la sua immensa statura di artista intonando un Nessun dorma di rara intensità; Carolina-Liù si è spenta, nel celebre Tu che di gel sei cinta, in un diminuendo che ha lasciato gli spettatori sbigottiti e commossi nel totale silenzio. E infine il duetto finale del ‘disgelo’. Qui Anna Pirozzi, metamorfica e possente, a fianco di Kunde e del coro, ha dato il meglio di sé. Un terzo atto che, pur ridotto, è apparso un regalo spontaneo nella sua estemporaneità, e unico perché irripetibile. "È proprio in occasioni come questa – ha commentato il presidente Fabrizio Miracolo – che si misura la forza di un Festival e della sua comunità artistica. Una serata che rimarrà nella memoria di chi l’ha vissuta".

Quel che più ci stupisce è che il melodramma, nato a Firenze in piena epoca barocca come emblema di meraviglia ed artificio, possa rivelarsi oggi, in un’epoca che si compiace nel suo essere anaffettiva, tra AI, autotune e tutti i ritrovati di un progresso tecnologico galoppa all’impazzata, un baluardo indispensabile di generosità e spirito di collaborazione, spontaneità e intelligenza concreta, sincerità e passione.

Chiara Caselli