
L'articolo esplora l'evoluzione della fiaba di Turandot, da Gozzi a Puccini, attraverso le traduzioni e le reinterpretazioni che hanno dato vita a un Oriente misterioso e affascinante.
"In Pekino, al tempo delle favole", si legge sul frontespizio di Turandot, fiaba tra le fiabe, eternamente proiettata in uno spazio immaginato: quello che Carlo Gozzi incarnò in "Turandotte, fiaba chinese teatrale tragicomica", dove l’Oriente ignoto fa da antidoto per sfuggire al razionalismo illuministico-borghese. Nel 1803 Schiller tradusse la commedia in tedesco. Se ne servì Busoni, che nel 1917 elaborò la sua versione. L’intellettuale milanese Andrea Maffei l’aveva ritradotta: così giunse nelle mani di Renato Simoni che con Giuseppe Adami elaborò il libretto per Puccini. Le cineserie in voga da tempo avevano contribuito a rinnovare il linguaggio dell’arte nell’epoca delle avanguardie, ma nel 1920, dopo la guerra, i tempi erano cambiati. Puccini ricreò il suo Oriente misterioso con armonie ambigue e raffinatezze timbriche.