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La cartapesta di Valentina Galli: "È vero il mio cognome pesa. Ma ognuno ha la sua originalità"

Figlia e nipote d’arte, l’artista ha imparato ad usare l’impasto nel baraccone di papà Fabrizio "Sono nata e cresciuta sui carri. Lavorare per me è ossigeno e questo è proprio un bel mestiere" .

La cartapesta di Valentina Galli: "È vero il mio cognome pesa. Ma ognuno ha la sua originalità"

di Gaia Parrini

Ha un cognome che parla e racconta la storia di Viareggio e del suo Carnevale, Valentina Galli, figlia, e nipote, d’arte. Di un’arte, quella della cartapesta, in cui è nata e cresciuta, ereditando, dalle prime forme con l’impasto, una passione per la modellatura e l’espressione creativa viscerale, e travolgente. Tanto da spezzarle la voce quando ne parla. Ereditando tanto, ma anche studiando e lavorando, poi, duramente. Per mantenere alta, sì, la tradizione e il “nome“ di famiglia, ma anche per crearsi, il suo, di nome, e la sua maniera, di fare arte.

Valentina, qual è il primo ricordo legato alla cartapesta?

"Ho cominciato a bazzicare il baraccone di papà a 15 anni. Ricordo che quando la scuola andava in autogestione, andavo lì, dove ho imparato a fare i primi fogli su impastino. Ero un po’ il “garzone“ e l’aiutocartapestaio. Ho messo davvero mano alla cartapesta in quel periodo, ma il Carnevale e le sfilate sono parte della mia vita da sempre".

Il primo carro su cui è stata?

"Avevo sei mesi. Era “Non ti sbagliare fermati qua“, il primo carro di papà con mio nonno. Sui carri ci sono nata e mio padre ha sempre vissuto questa passione con grande libertà ed emozione. Come se fosse una necessità, che mi ha trasmesso".

Un po’ come un’eredità...

"Sì, il Carnevale per me è ossigeno. C’è un forte attaccamento alla manifestazione e alle sue radici. Creare uno spettacolo per la città ti lega in maniera radicale e indissolubile a quello che è. È diventato un lavoro, ma parte da una passione enorme e viscerale".

Come ha deciso che sarebbe diventato il suo lavoro?

"Uscita dalle scuole medie, per me era una decisione già presa: volevo entrare nel mondo del Carnevale. Ho fatto l’istituto d’arte e poi l’Accademia e, alla fine, ho raggiunto quello che volevo. Ma non è stato così semplice come può sembrare ad altri".

Ha cominciato nel 2008 con le mascherate...

"Ho sempre lavorato ai carri, ma in quel momento volevo fare un percorso mio, che ho dovuto stoppare quando sono nati i miei bimbi, perché non avevo più tempo, dopo anche le 8 ore di lavoro al giorno sul carro che, tra la progettazione, la costruzione, la sfilata e le prove, mi ha completamente risucchiata".

Quanto è stato difficile gestire un cognome come il suo?

"Lo è ancora, difficile. Sono stata palesata da pochi anni nell’azienda di famiglia e devo creare il mio, di nome. Non è semplice perché tutti si aspettano da te grandi cose. È una lama a doppio taglio, e questo l’ha vissuto anche mio padre. Perché prima di Fabrizio Galli era il “figlio di..“ e il “nipote di...“. Ma poi ognuno prende la sua via, sviluppa il proprio modo di esprimersi ed esprimere la propria arte. Così come faccio io, e così come mio papà ha fatto, in maniera diversa da Renato e Arnaldo".

A proposito di Arnaldo, com’era?

"Era una persona invincibile, vivace. Abbiamo sempre interscambiato tante cose ma rimaneva, in qualche maniera, quasi inavvicinabile. “Mi raccomando, porta la mascherina, è pericoloso“ mi diceva sempre. Ho un bellissimo ricordo di lui, ma l’ho sempre visto molto lontano. È sempre stato il grande carrista, il mostro sacro".

Lei, invece, come carrista, come si approccia al lavoro?

"A livello tecnico ho un metodo tradizionalista, che recupera dunque anche il modo di fare il carro, con l’utilizzo delle modellature e degli stampi per creare la figura. Mentalmente si è sempre proiettati verso qualcosa di nuovo, con una ricerca spasmodica della novità e di qualcosa di geniale. Che, in 151 anni di Carnevale, non è sempre facile trovare. Bisogna riuscire a creare qualcosa che funzioni dal punto di vista estetico, ma anche emotivo".

E qual è il carro che, emotivamente, si porta nel cuore?

"Sicuramente “Ricordo di Viareggio“ di nonno Renato, quello è il mio carro. Ma anche “Ballata selvaggia“ di Avanzini. Sono carri che ho amato e che trovo, a livello di costruzione ed esteticamente, stupendi".

Il suo posto del cuore?

"Piazza Mazzini..."

Ah, non la Cittadella?

"Vuoi mettere il Burlamacco al tramonto? Poi, per me, Viareggio è il mare. Non potrei vivere senza. Con il suo tramonto e tutta la meraviglia che ha naturalmente, è talmente bella che non ha rivali".

Può dirci qualcosa sul nuovo progetto per la prossima edizione di febbraio?

"...sono estremamente scaramnatica. Posso dire però che sono davvero soddisfatta per la mia Kitsune: era il mio carro di partenza e sono contenta che il mio lavoro sia piaciuto.Il nuovo, che arriverà, sarà una grande sfida".