
Nelle aziende umbre la propensione alla coesione è sopra la media italiana
Si chiamano imprese ‘coesive’ e sono quelle che coltivano legami solidi con lavoratori, clienti, territori, istituzioni, scuola, terzo settore. In Italia sono arrivate al 44% del totale delle manifatturiere. Un dato in netta crescita: erano infatti il 32% nel 2018. L’Umbria, in questo scenario, rappresenta circa il 2% di tali imprese. Un numero modesto se letto in assoluto, ma non irrilevante se si considera che il Pil regionale pesa solo per l’1,4/1,5%% sul totale nazionale. Significa che la propensione alla coesione è sopra media, anche se ancora “invisibile“.
In particolare è nel comparto manifatturiero che l’Umbria mostra i segnali più promettenti. Qui, quasi il 40% delle imprese è classificato come coesivo. La regione si colloca all’11° posto tra le 20 regioni italiane per incidenza di imprese manifatturiere coesive. Lontana dalle eccellenze come il Trentino Alto Adige (quasi 60%) o l’Emilia-Romagna (quasi 50%), ma comunque sopra il Lazio (anch’esso prossimo al 40%), sopra le Marche e non distante dalla Toscana, che si attesta attorno al 40%.
Un dato solido, che segnala la presenza in Umbria di una manifattura relazionale, collaborativa, aperta, anche se ancora poco visibile e scarsamente sostenuta da politiche dedicate. Il rapporto distingue i territori in base all’intensità coesiva. Il Nord dell’Umbria, e in particolare la provincia di Perugia, mantiene una struttura relazionale attiva: più imprese coesive, più reti locali, più interconnessioni. Il Sud, invece - Terni e l’area industriale circostante - scivola tra le aree meno coesive d’Italia. È un problema che va oltre i numeri: riflette anni di deindustrializzazione, perdita di capitale umano, debolezza del tessuto associativo e imprenditoriale.
Ricucire questa frattura è la vera sfida regionale per trasformare l’Umbria in un laboratorio nazionale di coesione economica. A esempio, l’Umbria supera la media nazionale nella raccolta differenziata, dimostrando attenzione ambientale e senso civico. Anche l’utilizzo delle biblioteche, i dati sulla partecipazione e la fiducia interpersonale sono incoraggianti. Un capitale sociale vivo, spesso più nei piccoli centri che in città.
Un potenziale che può e deve essere messo al servizio dell’economia, a partire dalle imprese più avanzate. Ma non mancano i punti deboli. Primo: la natalità imprenditoriale. L’Umbria è al 17° posto tra le 20 regioni italiane: avviare un’impresa, specie per i giovani, resta complicato. Secondo: il valore aggiunto pro capite, indicatore chiave della capacità produttiva e del benessere economico. L’Umbria è solo 13esima: troppo indietro rispetto ai territori coesivi del Nord. Il rapporto è chiarissimo: dove cresce la coesione, cresce il valore aggiunto. I territori più coesivi producono fino a 38mila euro a testa, contro i 28mila di quelli meno relazionali. Dove ci sono reti, fiducia, collaborazione, si cresce meglio.
"L’Umbria non è in ritardo sulla coesione, è inascoltata – afferma Giorgio Mencaroni, presidente della Camera di Commercio dell’Umbria –. Abbiamo imprese che investono in capitale umano, che collaborano con il territorio, che innovano senza clamore e creano valore condiviso, ma restano ai margini del racconto nazionale. Serve una narrazione forte, radicata nei dati e nelle esperienze, che restituisca visibilità a questo patrimonio nascosto. Dobbiamo uscire dalla retorica dei territori fragili e iniziare a parlare di territori intelligenti, capaci di tenere insieme sostenibilità, competitività e legami sociali".