
di Erika Pontini
Cade il reato di traffico di influenze perché contestato sulla base di intercettazioni telefoniche "non utilizzabili", resta in bilico quello di corruzione in atti giudiziari che potrebbe addirittura sfociare nel meno grave abuso d’ufficio. La Cassazione imprime una dura battuta d’arresto all’indagine-scandalo su giudici e avvocati del tribunale di Spoleto che, nei mesi scorsi, aveva portato agli arresti l’avvocato tuderte Mauro Bertoldi e la socia di studio Nicoletta Pompei, all’interdittiva per il giudice Tommaso Sdogati (compagno della Pompei e tutt’ora sospeso dal Csm) e all’iscrizione nel registro delle notizie di reato del collega, Simone Salcerini. I giudici, con una sentenza a firma del presidente, l’umbro Stefano Mogini, hanno annullato l’ordinanza del tribunale del Riesame di Firenze, che aveva confermato i provvedimenti cautelari, ordinando una nuova valutazione del caso: i giudici, in particolare, dovranno innanzitutto dire se la contestazione di traffico di influenze ’sopravvive’ anche senza intercettazioni e spiegare come i giudici indagati abbiano commesso un atto contrario ai doveri d’ufficio, come previsto dal reato di corruzione in atti giudiziari, visto che – è il ragionamento della Cassazione – i fatti descritti potrebbero integrare anche i meno gravi reato di corruzione ’semplice’ o, addirittura abuso d’ufficio. Una decisione che arriva a poche settimane dall’avviso della conclusione delle indagini notificato dalla procura e, soprattutto, dalla decisione del pm Luca Tescaroli, titolare del fascicolo, di stralciare la posizione del giudice Salcerini, modificando l’iscrizione di abuso d’ufficio, in quella più grave di corruzione in atti giudiziari.
I giudici fiorentini – è il tenore della decisione dei giudici di piazza Cavour – non hanno spiegato perché aver ’raccomandato’ a Salcerini l’avvocato Bertoldi per essere iscritto come delegato alle vendite negli elenchi del tribunale di Spoleto fosse un atto contrario ai doveri d’ufficio del magistrato e, nemmeno quale sia l’"atto contrario", anche qui, commesso da Sdogati nel far pressione sulla sua cancelliera per l’iscrizione (qualora fosse legittima) dello stesso legale, socio di studio della fidanzata. Il pm Luca Tescaroli, titolare dell’indagine, ha invece stralciato la posizione della cancelliera per assumere "differenti determinazioni", quindi probabilmente la richiesta di archiviazione.
Mentre è addirittura ’lacunosa’ la ricostruzione sulla volontà – manifestata da Sdogati – di farsi assegnare la causa civile che Bertoldi voleva intentare per la morte del fratello, visto che l’assegnazione "risponde a criteri tabellari basati su regole oggettive". La sentenza rimette quindi in discussione il castello accusatorio. Secondo la procura, in particolare, l’ "avvocato corruttore" si sarebbe impegnato a far avere il 50 per cento delle consulenze ricevute dal tribunale (e per questo doveva essere inserito nelle liste dei delegati alle vendite proprio attraverso il giudice) alla socia Pompei (perché "Sdogati metteva a disposizione i suoi poteri e la sua funzione di magistrato compiendo anche atti contrari ai doveri d’ufficio – recita il capo di imputazione – , tra l’altro intervenendo reiteratamente" sia presso la cancelliera per verificare indebitamente l’inserimento di Bertoldi negli elenchi dei delegati alle vendite nell’ambito delle procedure di esecuzione immobiliare", sia presso il collega di sezione "per la nomina di delegato alle vendite". Adesso la procura deve interrogare Bertoldi, difeso dall’avvocato Luca Maori, e attualmente ai domiciliari prima di chiedere il rinvio a giudizio. Sdogati e la Pompei sono difesi dagli avvocati Guido Rondoni e Roberto Erasti. Ieri intanto i due avvocati indagati sono comparsi davanti al Consiglio di disciplina forense che aveva disposto, dopo gli arresti, l’immediata sospensione.