
Giuseppe Narducci
Perugia, 14 gennaio 2021 - Otto anni dopo e un processo in mezzo resta il dubbio sui presunti ’mandanti’ di quello che i giudici perugini ritengono essere stato un ’rapimento di Stato’. «Il Tribunale non è in grado di rispondere a una delle domande chiave che questa storia continua a suscitare (a quale livello politico o istituzionale venne presa la decisione della deportazione?)» ma sostengono che per «tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale». Perché la polizia italiana piegò la testa dinanzi al volere del Governo Kazako in quello che «sarebbe preferibile definire un ‘crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione».
Ovvero il sequestro di persona della moglie del dissidente kazano Muktar Ablyazov, Alma Shalabayeva e della figlioletta Alua di 6 anni.
A novanta giorni esatti dal verdetto il tribunale di Perugia ha depositato le motivazioni della condanna a cinque anni di reclusione, inflitta tra gli altri, all’allora capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, poi promosso questore di Palermo e all’ex capo dell’ufficio immigrazione, già al vertice della Polfer, Maurizio Improta.
In 288 pagine il presidente Giuseppe Narducci e i giudici Emma Avella e Marino Albani parlano di «crimine di eccezionale gravità», ritenendo che «alcuni rappresentanti della Repubblica italiana (imputati nel processo, ndr) accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e di fatto servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka».
Che, dopo aver perso le tracce a Roma di Ablyazov chiesero aiuto all’Italia per «la cattura di una persona che assumeva le sembianze di un Bin Laden kazako» e, «verificata l’assenza del ricercato dalla villa di Casal Palocco a Roma, dopo la perquisizione avvenuta nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, la Polizia di Stato e l’Ambasciata kazaka a Roma decidevano, di comune intesa, che Alma dovesse essere “presa in ostaggio” al fine di esercitare pressione sul ricercato».
La donna fu rimpatriata a tempo di «record mondiale» quando «sarebbe stato sufficiente accedere a Google e digitare le parole “Kazakhstan” o “Mukhtar Ablyazov” per comprendere immediatamente che mai, in nessun caso, il nostro Paese avrebbe potuto consegnare Alma e la figlia perché questa consegna, rectius deportazione, sarebbe avvenuta in palese violazione dei principi costituzionali e di quelli tracciati dalle convenzioni internazionali a cui il nostro paese aderisce».
La vicenda è ricostruita minuziosamente dai giudici: dai primi messaggi prima dei kazaki e poi di Interpol, all’irruzione nella villa romana fino all’immediato trasferimento di mamma e figlia con un volo privato da Ciampino ad Astana e, infine l’intervento della ministra Emma Bonino per far rientrare in Italia mamma e figlia.
Secondo i giudici «il disegno criminoso perseguito dagli imputati, in collusione con le autorità kazake, risulta, al termine del processo, disvelato e provato, in particolare, attraverso la acquisizione di due decisive fonti di prova».
La prima è la nota kazaka del 30 maggio «riguardante specificamente Alma Shalabayeva, ed una nota Interpol Astana diretta a Interpol Roma che, confermando che Alma era la moglie di Ablyazov, esortava la polizia italiana a seguire la raccomandazione kazaka: “In case of revealing of illegal stay of Shalabayeva Alma in Italy (under false documents) we ask your rispective authorities to deport her to Kazakhstan” !!!., ovvero: “Nel caso in cui si accerti la irregolarità del soggiorno di Alma Shalabayeva in Italia (con falsi documenti), noi chiediamo alle vostre rispettive autorità la deportazione della stessa in Kazakhstan”!!!».
L’altro elemento dirimente – secondi i giudici – è la deposizione del vice dirigente dell’epoca dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma che ha riferito che «egli comprese che la squadra mobile di Roma voleva che Alma fosse trattenuta presso il Cie poiché riteneva che il marito si trovasse ancora a Roma e fosse, dunque, indotto ad uscire allo scoperto una volta a conoscenza del trattenimento della moglie a Ponte Galeria».
«Avviato questo meccanismo illegale, aggiunge il Tribunale, la naturale conclusione della vicenda, nell’ottica di un asservimento completo dei pubblici ufficiali italiani agli interessi kazaki, non poteva che essere la deportazione».
In base a questa ricostruzione il tribunale ’rovescia’ completamente «le conclusioni cui pervenne il Capo della Polizia Alessandro Pansa che, relazionando al Ministro dell’Interno sulla vicenda Shalabayeva ed asserendo che nella stessa non emergevano profili di illegittimità, affermava che la causa dei mancato flusso di informazioni ai più alti livelli del Ministero e della Polizia di Stato era addebitabile al fatto che i responsabili della procedura amministrativa di espulsione di Alma Shalabayeva avevano attribuito alla stessa un “mero valore di ordinarietà burocratica”».
Mentre, secondo il tribunale «il flusso di informazioni pervenne sino al più alto livello della Polizia di Stato» e «il processo ha dimostrato che l’espulsione avvenne con modalità completamente opposte a quelle delineate nella relazione del Prefetto Pansa».
«L’espulsione e il trattenimento di Alma rappresentano un unicum nella storia giudiziaria italiana nella quale il Collegio non rintraccia né elementi di ordinarietà né di approccio burocratico, ma, al contrario, individua chiari segnali di eccezionalità e di straordinario accanimento persecutorio. In definitiva, secondo una appropriata definizione di commento a questa storia, avvenne un “rapimento di Stato”».
«Riservandoci ulteriori approfondimenti sulle motivazioni della sentenza, fin da ora non possiamo che rimanere sbalorditi dinanzi ad affermazioni che non hanno alcun aggancio con la realtà dei fatti e che configurano una situazione assolutamente lontana dalle stesse risultanze dibattimentali. La signora era una donna clandestina e si trovava in Italia con documenti falsi», dicono Franco Coppi ed Ester Molinaro, difensori di Renato Cortese.