Una mano sempre aperta "Le risposte di Caritas a vecchie e nuove povertà"

Il direttore della struttura fiorentina, Bonechi: "In crescita le richieste di aiuto. Sempre più famiglie nella ’fascia grigia, in difficoltà per la perdita del lavoro".

FIRENZE

Ridurre l’ineguaglianza si traduce nel tendere una mano per sostenere chi ha fame, chi ha sete, chi ha bisogno di una casa e di un aiuto concreto. È la missione di Caritas, organismo pastorale che ha come obiettivo il promuovere, anche in collaborazione con altri enti, la testimonianza della carità in tutte le sue articolazioni.

Il 13 maggio a Firenze sarà celebrato a Palazzo Vecchio e in Santa Croce il 50° anniversario dalla sua costituzione avvenuta per mano dal Cardinale Ermenegildo Florit, una festa per raccontare una storia di solidarietà e amore, oggi portata avanti con il direttore della Caritas diocesana di Firenze, Riccardo Bonechi.

Direttore, fin dalla sua fondazione Caritas è una mano tesa per sostenere e aiutare chi è in difficoltà. In cosa consiste nella pratica il vostro impegno?

"A partire dalle parrocchie, luoghi primari di ascolto e di intercettazione del bisogno, lavoriamo in rete sul territorio non solo con altre realtà parrocchiali, ma con tutti gli enti e le associazioni della nostra città metropolitana. Insieme possiamo costruire progetti ad hoc in base alle esigenze vere, reali, che scaturiscono dalla nostra quotidianità".

Negli ultimi anni queste esigenze sono aumentate.

"Gli sbarchi degli immigrati, le guerre, la pandemia hanno amplificato tutto, con la conseguenza che anche le Caritas parrocchiali e vicariali hanno dovuto mettere in campo un surplus di azioni per vivere più da vicino una nuova realtà di povertà".

Chi sono i "nuovi poveri", le persone che oggi frequentano le sedi Caritas?

"Sempre più famiglie della ‘fascia grigia’: quelle che fino a poco tempo prima vivevano tranquille, a cui bastava ciò che percepivano. Ma le difficoltà della perdita di lavoro o di chiusura determinata dal lockdown, li ha portati a non farcela più da soli. Il lavoro è il primo problema: grazie a fondi dell’8 per mille devoluti da Cei in via straordinaria, siamo riusciti a offrire una quarantina di borse lavoro, anche se non sono mai sufficienti. C’è poi l’emergenza casa: il restare indietro coi pagamenti che porta allo sfratto. Diamo accoglienza nelle nostre strutture e per 5-6 famiglie siamo riusciti a trovare delle abitazioni in cui possono riprendere il cammino con le proprie gambe".

C’è imbarazzo nel venire a chiedere una mano?

"Molto. Anche per questo dobbiamo ascoltare, attraverso i nostri centri di ascolto parrocchiali e diocesani. Ci sono bisogni che vanno ‘oltre’ la povertà, come l’aumento di disagio psicologico e comportamentale, fenomeni di hikikomori tra i giovani. Dobbiamo dare ascolto a 360 gradi, che tenga conto di quanto non ci viene esplicitamente detto".

Avete servizi specifici per donne e bambini?

"Nelle nostre tre case di accoglienza, garantiamo loro supporto psicologico e linguistico, inserimento scolastico per i bambini, giochi e cultura: stiamo facendo anche ’welfare culturale’ per far conoscere la città".

Non solo carità, cibo, supporto materiale: vi occupate innanzitutto di promuovere una cultura della solidarietà e, come suggerisce l’Agenda 2030, "ridurre l’ineguaglianza".

"Bisogna partire dalle piccole realtà per fare crescere le persone e dare dignità affinché si sentano protagoniste del loro presente e futuro. Dobbiamo andare per le strade e visitare le periferie per dare ascolto alle marginalità più estreme. Dobbiamo impegnarci perché il cosiddetto ’povero’ diventi un soggetto attivo e protagonista, rovesciando la dinamica che ci vede noi donatori di qualcosa e gli altri come fruitori. Proviamo a scambiare questi due ruoli perché tutti, senza distinzioni, possiamo essere protagonisti della nostra dignità e crescita. Non credo sia un’utopia, ma piuttosto un tentativo di andare oltre".

Manuela Plastina