Bartali in bici tra Firenze e Assisi. Quanta strada nei suoi sandali per aiutare gli ebrei perseguitati

La telefonata del cardinale Dalla Costa sul finire del 1943 mentre crescevano gli arresti delle Ss. Serviva qualcuno che recapitasse i documenti falsi per mettere in fuga le persone in pericolo.

Bartali in bici tra Firenze e Assisi. Quanta strada nei suoi sandali per aiutare gli ebrei perseguitati

FIRENZE

Squillò il telefono. Il cardinale Elia Dalla Costa non fece tanti discorsi, perché il telefono era sotto controllo. La sua era una convocazione urgente. Era già sera in quella fine del 1943. Gino Bartali montò in sella alla bicicletta e si precipitò in piazza San Giovanni, all’Arcivescovado. Firenze era allora terra desolata: Mussolini era tornato al potere in mezza penisola e l’Italia era divisa. Qualche settimana prima, a fine settembre, c’era stato anche un bombardamento alleato alla stazione ferroviaria di Campo di Marte, e tanti isolati erano rimasti distrutti con un bilancio di oltre duecento vittime civili. Nonostante la tragedia del momento, quel giorno Firenze aveva un aspetto tranquillo: la vita scorreva regolarmente e tutto funzionava come se la guerra non riguardasse nessuno.

Eppure, il mercato nero imperversava, tanti disperati rufolavano nell’immondizia, e i più giovani, con i riflessi pronti, si impegnavano nella caccia al gatto randagio. Bartali smontò di bicicletta e suonò al portone dell’arcivescovo. Gli aprì Giacomo Meneghello, segretario particolare di Dalla Costa che si affrettò ad accompagnarlo di sopra. Elia Dalla Costa era seduto nel suo ufficio e appena Bartali entrò dalla porta si alzò e andò a salutarlo, lo fece accomodare e iniziò a raccontargli il perché di quella convocazione.

Il novembre del 1943 fu terribile per gli ebrei fiorentini. Agli inizi del mese le SS e i fascisti arrestarono numerosi ebrei non italiani, e alla fine del mese ci fu una retata in grande stile, in cui i nazifascisti fecero irruzione anche in un palazzo della Curia, arrestando pure membri del Delasem, alcuni sacerdoti fedeli di Dalla Costa e il rabbino di Firenze Nathan Cassuto. Quel giorno era arrivato da Assisi il frate francescano Rufino Nicacci. Nel breve tragitto dalla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a piazza del Duomo incrociò camion e moto di soldati armati. Stavano scortando in strada famiglie intere di ebrei: i genitori venivano fatti salire su alcuni camion, i bambini venivano infilati a spintoni e col calcio dei fucili su altri camion. Quei giovani che tentavano la fuga erano uccisi con una mitragliata alle spalle. Un’intera famiglia fu giustiziata sul posto, contro un muro, perché il babbo aveva una pistola.

Quello che vide turbò molto Nicacci che si apprestava a incontrare il cardinale all’arcivescovado. Quando lo raggiunse, Dalla Costa lo fece accomodare e non ebbe certo bisogno di descrivergli la tragedia del momento e l’urgenza di organizzare aiuti che potessero se non mettere fine, almeno limitare la carneficina. Ad Assisi il padre francescano aveva già organizzato, su ordine del vescovo della città, una rete solidale per produrre la contraffazione delle carte d’identità da affidare ai molti ebrei che si erano rifugiati nei conventi.

Padre Nicacci era venuto a Firenze perché sperava che gli ebrei profughi ad Assisi potessero muoversi verso Firenze e da lì cercare una via di fuga a sud, ma si era reso conto da solo che la situazione era molto peggiore di qualsiasi più negativa previsione. Fu Dalla Costa che invertì la rotta. Chiese al francescano di cambiare direzione di marcia: se gli ebrei non dovevano spostarsi dall’Umbria verso la Toscana, si doveva fare il contrario. Nicacci cominciò a preoccuparsi, temendo di riempire la piccola città di Assisi di ebrei in fuga. Ma Dalla Costa, intuendo i timori del giovane francescano, gli disse che l’idea era quella di usare la città di San Francesco come centro di produzione di documenti falsi. Il cardinale fu così convincente che nei mesi successivi padre Nicacci si dedicò con tale impegno alla salvezza dei rifugiati che a un certo punto il suo convento diventò l’unico dove c’erano così tanti ebrei che la cucina era diventata kosher.

Tuttavia, adesso si poneva un problema cioè come far arrivare clandestinamente le fotografie degli ebrei da Firenze e come riportare indietro i documenti d’identità falsi. Ma questa era una questione che riguardava il cardinale fiorentino che, peraltro, aveva già un’idea su come risolverla. Così, adesso Gino era seduto davanti al cardinale Dalla Costa, suo padre spirituale. L’argomento era semplice: a Firenze arrivavano tanti profughi ebrei, serviva cibo, un tetto e carte d’identità false. Gino poteva diventare una staffetta, un messaggero che trasportava documenti. Chi meglio di lui? Durante la prima parte della guerra aveva attraversato in bicicletta la Toscana come portaordini militare. Ora si trattava di continuare a correre in bicicletta, ma per portare documenti che i militari non dovevano vedere.

Gino conosceva bene tutta la rete stradale e le vie anche meno battute della sua regione. I suoi allenamenti lo avevano portato ovunque e adesso poteva continuare ad allenarsi, facendo qualcosa di utile per aiutare persone in difficoltà. Certo, così metteva in pericolo anche se stesso e la sua famiglia, perché se fosse stato scoperto dai nazifascisti, sarebbe stato difficile negare il proprio coinvolgimento. Ma chi avrebbe fermato Bartali, il campione, che si allenava per i prossimi giri d’ Italia e tour de France? Il compito prevedeva la massima segretezza e Gino accettò di far parte della rete dei falsari, tacendo con chiunque di questo incarico. Dalla Costa si era raccomandato: meno persone sanno l’una dell’altra, meno cose verranno fuori se i nazisti o i fascisti fermano qualcuno dei messaggeri.