
Ma sapeva scrivere o no? Sapeva leggere davvero o i riferimenti alle sacre scritture disseminati nelle sue lettere li aveva carpiti dalle prediche ascoltate in San Domenico e ritenuti a memoria? Avrà ammesso consigli integrativi o imponeva una dettatura sillabata in estatico rapimento? Le domande son destinate a non avere risposte definitive e unilaterali. Siamo noi a dover interrogare le 381 missive – o giù di lì – che la giovane ribelle di Fontebranda indirizzò a potenti e eremiti, a cardinali e prelati, a dame aristocratiche e artisti, a fedeli discepoli della sua numerosa ’famiglia’ o ai governanti della sua città, a papi, condottieri, re e regine. Se non che, fino ad oggi, un’edizione critica come si deve delle Lettere, pur citatissime per stralciarne detti e esortazioni, luminose metafore e rimproveri, mancava.
L’impresa avviata da Eugenio Dupré Theseider era rimasta ferma ad unico volume primo – edito nel 1940, comprensivo di 88 lettere soltanto. Nell’accingersi a compilarla l’illustre storico non aveva esitato a confessare le difficoltà nell’impostare e eseguire l’improbo piano: i copisti "non fecero – avvisò – quasi mai un puro lavoro di trascrizione, ma cercarono di arricchire le loro raccolte copiando altre lettere da codici anche di altre famiglie: talché l’impresa di costruire le genealogia dei codici cateriniani è della più disperante complessità". Passi avanti sono stati fatti nel frattempo, ma, quanto all’epistolario nel suo insieme, l’ambizioso progetto avviato 80 anni fa non era mai stato ripreso. Ecco perché il lavoro ripreso con sistematico vigore dall’Istituto presieduto da Massimo Miglio segna una data storica nella conoscenza filologicamente attendibile dell’opera cateriniana. A introduzione del progetto è apparso un volume (’Caterina da Siena, Epistolario. Catalogo dei manoscritti e delle stampe’) che sarà presentato all’Accademia degli Intronati oggi alle 17. Ne parleranno Giada Mattarucco (Università per Stranieri ) e Marco Palma (Università di Cassino). Interverranno lo stesso Miglio, Antonio Cocolicchio, Tomaso Montanari oltre ai curatori. Il volume mette in luce, fra l’altro, l’importanza del codice T. III . 3 della Biblioteca degli Intronati, che contiene cinque delle otto lettere ’originali’ di Caterina, stese da Barduccio Canigiani. Anche una sesta lettera si trova a Siena, nell’archivio della Compagnia dei Santi Niccolò e Lucia, altre due sono a Catania e a Oxford. L’edizione in cantiere non risponderà, ovviamente, ai quesiti evocati in apertura. Il catalogo, che passa in rassegna i materiali sottoposti ad accurato esame per costruire l’edizione critica, è accompagnato da considerazioni su aspetti metodologici cruciali. E il Database on line ’DEKaS’ , con quel K che rinvia alla grafia tradizionale Katerina, esplicita "l’orientamento conservativo che la nuova edizione si propone di avere sul piano grafico".
È opinione dei più che Caterina sapesse leggere e perfino si applicasse alla correzione dei testi che uscivano dalla sua affaccendata cancelleria. E scrivere? Si deve tener presente che ’scrivere’ era verbo che non indicava un’azione condotta in prima persona, ma l’intenzione di trasferire su carta pensieri affidati a esperti scribi. Caterina era orgogliosa di quanto restava scritto, o di suo pugno o filtrato da fidi collaboratori maschili, e ci teneva che le sopravvivesse. Nell’ultima lettera (15 febbraio 1380) rivolta all’occhiuto controllore che dopo il 1374 la seguì come un’ombra non ebbe esitazioni nel raccomandare di far tesoro "di ogni scrittura la quale trovaste di me". E fu esaudita. Le sillogi, in testa i due manoscritti di Cristoforo di Gano Guidi e i due organizzati dal domenicano Tommaso detto il Caffarini, spiccano tra i 58, tutti risalenti ai secoli XIV e XV attestando le finalità divulgative di parole che serbano passaggi di un’oralità dolce e impetuosa, viva e fragante come quando fu pronunciata.
Roberto Barzanti