
Sono 24 i ragazzi che hanno partecipato al programma di formazione organizzato dalla cooperativa agricola sociale San Francesco, svolto all’interno della tenuta Casale del Bosco, a Montalcino, dove hanno seguito corsi di potatura della vite e dell’olivo. Arrivano da varie parti dell’Africa e dell’Asia meridionale, sono richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale. Qualcuno è in Italia da soli 6 mesi e sta ancora cercando di ambientarsi, altri da anni come Salis.
Ha 34 anni, è il più grande di tutti, fa da mediatore, viene definito il "capo" anche se questo appellativo lui lo scansa sorridendo. È in Italia da 10 anni, laureato a Siena in Economia, viene dal Togo dove ha una moglie che spera di poter vedere al più presto e magari, perché no, mettere su famiglia. Ha fatto tanti lavori, molti sottopagati (come lavare le macchine 8 ore al giorno, per 450 euro al mese). Punto di riferimento per gli altri, è grazie a lui che per esempio Yaya ha conosciuto la cooperativa.
Lui è il più giovane del gruppo, ha 21 anni ed è arrivato qui che era ancora minorenne. Scappato dal Ghana quando ne aveva 15, ha trovato appoggio in Libia da un amico, dove però si è fatto 8 mesi di carcere di cui le prime 2 settimane senza mangiare. Non si reggeva in piedi, racconta. Poi la fuga in mare e lo sbarco in Italia. Qui ha ricominciato a studiare, prendendo la licenza media, lavorare a contatto con la natura gli piace, ma non sa ancora cosa vorrà fare da grande, si affida al destino sperando che sia clemente. Ma soprattutto, sarebbe da aggiungere, che sia supportato da un sistema di accoglienza sensato e degno di chiamarsi tale.
"L’integrazione parte dal lavoro – spiega – con il lavoro una persona può pensare di comprarsi casa, farsi una vita e contribuire. Sembra una cosa banale, ma in realtà non lo è per tutti. La cooperativa esiste proprio per dare a queste persone la normalità". A rendere le cose più complicate c’è la burocrazia che è un cane che si morde la coda: senza una busta paga non puoi avere i documenti e senza questi sei clandestino. "Questo è proprio ciò che alimenta il caporalato - aggiunge Nicola Peirce, presidente della Cooperativa - chi non ha il documento e quindi la possibilità di lavorare in modo regolare è preda di chi li sfrutta. La nostra attività ha come obiettivo quello di arginare questi fenomeni che, tra l’altro, sono un danno anche per i produttori stessi, schiacciati da una concorrenza sleale. Ci vorrebbe un metodo di riconoscimento degli imprenditori, e delle squadre, che operano nella regolarità. Una sorta di bollo qualità".
"E’ una cultura che la nostra famiglia ha da sempre – racconta Emilia Nardi, proprietaria delle Tenute - Siamo nell’imprenditoria da più di 100 anni e i nostri dipendenti sono sempre stati pagati. Quando mi hanno proposto il progetto non ci ho pensato due volte. Il lavoro è dignità e tutti ne hanno diritto".
Il settore scelto è quello agricolo, trainante in Toscana ma spesso sofferente di manodopera. La cooperativa li forma così da renderli autonomi e appetibili per il mercato. Il progetto ha trovato il supporto della Regione e dell’Asl Sud Est, nell’ambito del progetto Icare. "Parte dal concetto di garantire la loro salute a tutto tondo – conclude Lia Simonetti, direttrice servizi sociali dell’Asl - e quale azione migliore, per tutelare il loro benessere psicofisico, se non quella di formarli per il mondo del lavoro e aiutarli a far parte di una comunità".
Teresa Scarcella