
Massimo Biliorsi ama la fusione dei tradizionali generi. Così in un racconto giallo inserisce strappi di tensione erotica. In un noir non disdegna immettere aperture idilliache. In una misteriosa leggenda svela d’improvviso segreti non complicati. In un’evocazione giornalistica di casi occorsi realmente in una città all’apparenza assopita innesta tinte comico-grottesche. Quando chiudi un suo libro scopri che attraverso una serie di Qr code potevi sfogliarlo ascoltando musica intonata alla serie dei capitoli. Quest’ultima invenzione corona anche la sua ultima divertente fatica, la graphic novel ‘Il Trionfo della morte’, ambientata a Siena naturalmente e ricca di suggestioni e riferimenti o immagini di una terra che ha uno sfarzoso, inesauribile immaginario.
L’allegoria svolazzante della Morte proviene dall’affresco del Camposanto pisano. E proprio attingendo a questo patrimonio toscano Massimo sfrena la sua fantasia di sceneggiatore. Non credo che il titolo, identico a quello del celebre romanzo di Gabriele D’Annunzio pubblicato nel 1814, alluda a fasti edonistici d’inizio secolo, replicati in una Siena anni Settanta. Fatto è che il risultato è di grande qualità. Insieme al bravissimo e raffinato disegnatore Riccardo Manganelli, all’impaginatore Daniele Capperucci – ma i titoli di testa sarebbero lunghi da trascrivere – l’editrice il Leccio ha dato alle stampe un album che si guarda, si legge e si ascolta sobbalzando di sorpresa in sorpresa. Trattandosi di un’operetta a tinte prevalentemente gialle, non sarebbe corretto svelarne la trama e rovinare effetti e scoperte. Basterà dire che fa onore a quella "letteratura disegnata" che Hugo Pratt, richiamato in esergo, teorizzava consistere il prodotto un tempo chiamato semplicemente fumetto. Qui il montaggio è spettacolarmente cinematografico.
Ad apertura un cavaliere in scafandro trascina in catene due nude fanciulle: e viene in mente il "Salò" di Pasolini. Il nome del commissario che indaga ammicca al "Pasticciaccio" di Gadda: "Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia...".
La pagina seguente presenta il Campo sovrastato da piccioni in volo e il testo esplicita un carattere originario che avrebbe caratterizzato la città, "pigra e maestosa, capace di mantenere un segreto nel suo magnifico ventre. Anche il più scomodo: lo ha sempre fatto nel corso dei secoli". Non sembra di essere ai nostri giorni? La vicenda ha per filo conduttore le indagini su quadri rubati e custodi fatti fuori. Finché....Mi trattengo. Sono stato distratto dalle tavole: c’è una Siena vista dal retro prosaico delle sue case in fila. Le persiane di una finestra si aprono esibendo una distesa di indumenti . Fa capolino una donna curiosa: "Mai fidarsi di questa facce innocenti". I nomi veri sono storpiati ma la distorta anagrafe è così leggera che riesce facile individuare dietro ogni maschera persone che hai conosciuto: Paolo Maccheroni, il Donde, Giulio Papi e lui, Jean Maxime Bilioris. Con una trovata acuta Massimo intervalla alla storia (?) ritagli da testate di giornali d’epoca: "Il Campo di Siena", la cronaca della "Nazione", il "Nuovo Corriere Senese". Erano liberi laboratori di scrittura. Quante penne celebri son sortite dalle tipografie sporche di piombo inchiostrato. E quanti anni son passati – un’epoca – da quel gioioso trambusto alla grafica di un libro come questo, che si affaccia sui linguaggi contemporanei non dimenticando un passato che ancora emoziona!
Roberto Barzanti