
Sono passati più di vent’anni, da quando partì da Siena una mobilitazione straordinaria in difesa di Derek Rocco Barnabei. Nel momento in cui il Corriere della Sera scrisse che c’era un senese condannato a morte, in Virginia. E che era innocente. La storia che seguì a quel titolo sembra smentire più o meno tutto di quell’affermazione, che oggi sarebbe considerata ai limiti della fake news. Perché Barnabei non era senese, prima di tutto. Il legame con la città si riassumeva nel fatto che suo nonno, abruzzese, aveva studiato per un certo periodo al Convitto Tolomei.
E anche sulla sua innocenza, la convinzione dei primi tempi si è via via sgretolata. Resta salda però la convinzione delle ingiustizie processuali subite dall’imputato, che venne giustiziato, per l’omicidio della studentessa diciassettenne Sarah Wisnosky, il 14 settembre 2000. E la certezza che la pena di morte è sbagliata. Sempre. A ricostruire quella vicenda è stato Alessandro Milan, giornalista e conduttore radiofonico e televisivo, con il suo libro ‘Un giorno lo dirò al mondo’, che ieri ha presentato a Siena, alla Libreria Becarelli, insieme a Anna Carli e Fabrizio Vigni, della Fondazione Barnabei, nata da quella mobilitazione alla fine degli anni Novanta. "Eravamo tutti in piazza convinti della sua innocenza – ha ricordato Pino Di Blasio, caporedattore della Nazione, che ha introdotto e moderato la serata – perché con quel titolo il Corriere della Sera aveva acceso gli animi, dando il via a quel movimento da cui poi è nata la fondazione che è in piedi da più di vent’anni. Perché Siena ha sempre avuto questa capacità di coinvolgere, di toccare la parte migliore delle persone. Ma non c’è bisogno di un innocente per essere contro la pena di morte".
"Ho passato vent’anni a chiedermi cosa fosse avvenuto quella notte – ha detto Milan – e ho capito che quella domanda, innocente o colpevole, non era la questione importante". "Non credo che nessuno oggi possa più avere quella risposta – ha detto Vigni – e quello che mi chiedo è cosa accadrebbe se tutto questo succedesse oggi. C’è un brutto vento forcaiolo che ha prodotto danni. È vero che sulla pena di morte la situazione nel mondo è migliorata, ma non è una condizione irreversibile".
"Jane, la madre di Derek, con noi ha sempre parlato più della pena di morte che della vicenda di suo figlio – ha aggiunto Carli, presidente della Fondazione – e io credo che lo abbia fatto per impedire che la morte di Derek fosse senza uno scopo. Lei voleva farlo vivere attraverso quella lotta contro la pena di morte". Una battaglia che continua, proprio come Jane Barnabei ha fatto scrivere sulla lapide del cimitero di Bromall, vicino a Filadelfia, in Pennsylvania, dove Derek è sepolto. "Sono tornato in America qualche settimana dopo l’esecuzione – racconta Vigni – perché il fratello di Barnabei si era sposato. Era stato un desiderio di Derek, non voleva che suo fratello rinviasse le nozze. Dopo il ricevimento, sua madre mi portò alla tomba. Mi mostrò la lapide. C’era scritto ‘The fight goes on’".
Riccardo Bruni