LAURA VALDESI
Cronaca

Medico in prima linea. "Ma non sono un eroe"

Il medico senese Dami spiega che anche in questo comparto mancano camici bianchi. "Colpa anche della distinzione fra convenzionati e dipendenti"

IL dottor Stefano Dami

Siena, 23 novembre 2020 - «Storie toccanti a livello umano durante la pandemia? Né belle, né brutte. Tante e tutte con una dignità personale. Anche a casa non ne parlo per rispetto dei pazienti con cui ho instaurato un rapporto professionale. E anche perché a mio avviso il rapporto fra questi ultimi e il dottore è qualcosa di estremamente privato». Medico in prima linea Stefano Dami, 52 anni, di Siena e del Bruco. Il nonno Luigi aveva la falegnameria dove c’era un tempo la stalla della Contrada. Lavora al 118 da quando il servizio è nato, diventando punto di riferimento per i cittadini. E ora dirige l’Uos Gestione territorio 118 area provinciale senese che afferisce all’Unità complessa guidata da Giuseppe Panzardi.   

Vi sentite degli eroi? «Assolutamente no. Il lavoro del medico, e in particolare di chi si occupa dell’emergenza, prevede tutto ciò che sapete. Non è in fondo cambiato molto, se non nelle modalità organizzative e nella gestione della risposta sanitaria».   

Proprio lo stesso lavoro? «Guardi, non abbiamo bisogno di eroi ma di persone formate e che svolgono con competenza l’attività».   

Siete in numero sufficiente? «Da tempo c’è carenza di personale. Di medici in generale. E la pandemia l’ha messo in evidenza. Probabilmente noi la soffriamo di più perché ci sono fattori che concorrono come il doppio contratto. Alcuni medici del 118 sono dipendenti, altri convenzionati pur svolgendo lo stesso lavoro. Nell’ultimo anno ci sono state una decina di uscite da parte di questi ultimi: chi trova altre soluzioni se ne va».   

Quanta paura di essere contagiato? «Come quella di qualsiasi persona che vive questo momento».   

Voi siete a contatto con potenziali Covid 19.  «Che sono ovunque, in realtà. Mi è capitato, dopo un intervento in cui si è gestito un paziente positivo, di ragionare con i volontari che temono il contagio. Paradossalmente se nel nostro lavoro seguiamo le regole di sicurezza siamo meno esposti di chi non vive con la stessa accortezza. Preparati, addestrati, consapevoli». 

Come vi proteggete? «Adesso tuta, più occhiali, mascherina ffp2, doppi guanti, calzari. E quando finiamo l’intervento tutto viene smaltito in contenitori dedicati».   

I giovani hanno meno paura? «Spensierati finché non si confrontano con il problema. Quando vedono che li tocca da vicino sono spaventati». 

Le persone hanno timore di andare in ospedale? «Sì, spesso non vogliono venire. Una signora caduta in strada, con necessità di essere suturata e trauma cranico, non voleva assolutamente andare. L’ospedale serve ma, come in tempi non Covid, va usato comunque in modo corretto». 

Nessuno le ha detto grazie? «Che c’entra, c’è sempre quando ascolti le persone, cosa fondamentale e un po’ andata persa nel nostro mondo, e fai il massimo per dare loro una mano».  

In famiglia il Covid ha cambiato la sua vita? «Sì, nel senso che si parla spesso di questo problema. Soprattutto cerchiamo di limitare nelle attività quotidiane comportamenti potenzialmente a rischio. Ci disinfettiamo le mani, usiamo gli ambienti in maniera più razionale. Il rapporto con le altre persone è moderato e filtrato, comunque improntato al buon senso che va al di là di quanto contenuto nei vari Dpcm. Mio figlio si è diplomato ma ha evitato il viaggio per festeggiare l’evento. Il grande, che fa il terzo anno del politecnico a Milano, è tornato a Siena. Comunque l’infezione è sempre possibile ma se uno ha fatto ciò che era in suo potere non ha niente da rimproverarsi».