
La delicata situazione dei rapporti interni in un’Unità complessa ospedaliera diretta da una docente universitaria è finita prima al Tar e poi al Consiglio di Stato (foto d’archivio)
di Laura Valdesi
SIENA
Un’eccellenza, nell’azienda ospedaliera dove lavora. Professoressa universitaria, come spesso succede, in regime di convenzione dirige un’Unità operativa complessa per la quale prestano servizio oltre 40 persone, fra docenti, ricercatori e specializzandi. Naturalmente tecnici e personale amministrativo. Ma circa un anno e mezzo fa arriva una segnalazione al rettore dell’ateneo e al direttore generale dell’ospedale firmata da alcuni colleghi della professoressa nella quale si lamenta un clima di disagio e anche conflittuale. Nasce così l’iter che porta l’Università a valutare eventuali provvedimenti da adottare nei confronti della dirigente. Che avrebbe tenuto un atteggiamento autoritario, addirittura degradante e prevaricatore, secondo alcuni colleghi. Avanzando, tra l’altro, richieste di lavoro eccessive. Alcuni specializzandi si rivolgono alla consigliera di fiducia dell’ateneo sostenendo che viene violato il codice etico. Un clima pesante, insomma. Che finisce davanti al collegio di disciplina il quale, all’unanimità, il 26 settembre 2023, giudica corretta la sanzione formulata dal rettore: sospensione dall’ufficio per 4 mesi e dallo stipendio, con esonero dalle funzioni accademiche, la perdita dell’anzianità e, come sanzione accessoria, l’impossibilità per i 10 anni solari di essere nominata rettrice dell’Università o direttore di un’istituzione universitaria. La docente non ci sta. Ricorre al Tar della Toscana chiedendo ed ottenendo l’annullamento della sanzione disciplinare. Il tribunale amministrativo gli dà ragione adducendo tra l’altro "un’invalidante genericità" degli atti impugnati. I fatti di cui la professoressa veniva accusata dovevano essere specificati. Si doveva dire in quale episodio era stato violato per esempio, come sostenuto, l’onore e la dignità del ruolo di docente. Una vicenda complessa. Un braccio di ferro che prosegue arrivando davanti al Consiglio di Stato a Roma a cui, questa volta l’Università, fa appello. Quest’ultimo viene ritenuto fondato. Il rettore, sostengono i giudici della settima sezione, ha delineato con sufficiente chiarezza gli addebiti disciplinari conseguenti al comportamento, descritto come autoritario e di vessazione, verso dottorandi e ricercatori che la docente al centro della vicenda, più volte definisce con il termine sottoposti nella memoria difensiva depositata all’organo di disciplina. Si contesta il suo atteggiamento esigente che vuole prestazioni oltre gli orari previsti e che non ammette il dissenso, da sanzionare con l’isolamento. Che tratteggia un modello gerarchico. Innegabile la dedizione al lavoro della docente universitaria che dirige l’Unità complessa, la sua grande competenza, ma questo non può diventare una sorta di modello assoluto che tutti devono seguire. Gli atteggiamenti che divergono da quest’ultimo finiscono invece, secondo quanto emerso, per essere emarginati come fosseo inadempienze ostili alla sua persona. Il Consiglio di Stato ricorda che, per statuto, la comunità universitaria è il luogo in cui si trasmette il sapere e non quello in cui vengono impartiti ordini ai ’sottoposti’. Insomma, non vengono ritenute generiche le contestazioni disciplinari. Nessun deficit istruttorio. Di conseguenza la sentenza del Tar impugnata deve essere riformata, secondo il Consiglio di Stato. Compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Prossime mosse? L’avvocato della docente al momento preferisce non fare dichiarazioni.