RICCARDO BRUNI
Cronaca

Chiedi alla polvere, la triste storia dell’ex Idit "Quei soldi buttati per un’industria fantasma"

L’architetto Carlo Nepi curatore della mostra al Santa Maria. "Di quel sogno economico è rimasto un ecomostro che andrebbe recuperato"

di Riccardo Bruni

Un ecomostro. Un oggetto di studio di grande valore architettonico. Un monumento a certe ambizioni tradite della provincia contadina che sognava l’industria. Un fallimento. Un’opportunità. Quella torre di ferro e cemento, che si vede dalla Cassia, passando vicino a Isola d’Arbia, è tutto quel che resta dello stabilimento Idit (Industria di Disidratazione Isola Tressa). Ogni volta che un’associazione paesaggistica scrive una lista di ecomostri, questa struttura compare sempre.

Eppure, non tutti sono d’accodo su questo giudizio. Perché quella torre non è soltanto un gigantesco rudere, ma anche il testimone di un’epoca, finita con il secolo scorso, quando l’idea di impatto ambientale non era ancora matura e tutto era sacrificabile sull’altare dello sviluppo e dell’occupazione. È storia, quindi. Memoria.

Una vicenda che viene raccontata nella mostra che sabato alle 11.30 sarà inaugurata al Santa Maria della Scala, intitolata ‘L’industria della polvere’. Perché è questo che l’Idit produceva. Polvere. Inaugurata nel 1960 con taglio del nastro ed entusiasmo nazionale, avrebbe dovuto liofilizzare pomodori. Nel 1966 la società era già fallita. "Il progetto – racconta Carlo Nepi, curatore della mostra – si arenò per il fatto che andare a prendere i pomodori al sud costava troppo. Il piano economico era tutto sballato. Ma fu un investimento enorme, che portò sul territorio questo cilindro cavo di settanta metri, ricoperto di vetro e illuminato, che allora sembrava un’astronave. Purtroppo, con il tempo la struttura è stata smantellata e oggi ne rimane solo lo scheletro. Ma in sé l’edificio conserva un suo interesse. Tanto che negli anni è stato oggetto di molte tesi di laurea".

Non sono mancate le proposte di riutilizzo. "Varrebbe la pena prendere in considerazione questa ipotesi – afferma Nepi – perché la Francigena e la linea ferroviaria passano di lì, e una torre di settanta metri può offrire una visione panoramica di tutta la Val d’Arbia che sarebbe davvero straordinaria".

Ma l’aspetto fondamentale è un altro: "È conservare la memoria. Le cose si sedimentano, si trasformano, e questo edificio, per chi vive qui, fa ormai parte del paesaggio. Distruggerlo vorrebbe dire rinunciare a un pezzo importante di memoria di questo territorio".

La mostra è promossa dal Comune Siena insieme al Santa Maria della Scala, a cura di Carlo Nepi e Francesca Sani, Jacopo Armini coordinatore del progetto, i testi di Giovanna Calvenzi e Carlo Nepi e le fotografie di Carlo Vigni. "Mi ha sempre colpito – afferma Vigni – la dimensione simbolica di questa torre di oltre settanta metri che come un campanile laico, devoto al culto della produzione e del progresso, ho visto fin da bambino. Un simbolo però che nulla ha dell’operosità contadina della gente della Val d’Arbia, ma di uno sfortunato e paradossale accidente capitato in pieno boom economico".

"Carlo Vigni registra il disfacimento degli interni – afferma Calvenzi –, l’accumularsi dei detriti, l’infiltrarsi degli alberi, l’infittirsi delle presenze vegetali. Per il suo lavoro di testimonianza e di indagine sceglie una distanza equa e un linguaggio documentario che indaga e registra in modo fedele. Guarda quasi con affetto questa incongrua presenza sul territorio senese". Testi e fotografie rimarranno nel catalogo realizzato in occasione della mostra, che racconta forse la storia di una ferita, inflitta al territorio da un’idea ormai sorpassata di progresso, ma che, come avviene nell’arte giapponese del kintsugi, in cui si ripara un oggetto rotto usando una colatura d’oro che ne esalta le cicatrici, può conservare la memoria del trauma diventando qualcosa di prezioso.