
di Roberto Barzanti
Questa volta da Siena parte in direzione di Bagno di Romagna, ma arriva il giorno precedente a Montalcino, già sede di tappa nel 2010. Non è fuori luogo scrivere che il serpente multicolore del Giro d’Italia 2021 sosta a lungo in una terra ricca di attrazioni e affezionata alla corsa. Sono otto le tappe che hanno avuto a traguardo Siena. Le prime due posso solo immaginarle.
Nel 1913 la prima occasione: seconda tappa vinta da Eberardo Pavesi della Legnano. Era un Giro alla buona allora. Alla fine rimasero in una trentina a disputarsi la maglia rosa, conquistata dallo sfortunatissimo Carlino Oriani: nella ritirata di Caporetto si buscò una maligna polmonite e morì a 29 anni appena. Pavesi si piazzò secondo nella classifica finale: "E proprio non speravo di cavarmela tanto bene" gli mette in bocca un Gianni Brera in piena forma nel falso racconto autobiografico ’Addio, bicicletta’. Nel 1929 la tappa arrivò da Orvieto e sfrecciò primo Mario Bianchi.
Fu nel 1948 che i senesi della mia generazione, o più attempati, si emozionarono nell’assistere di persona all’arrivo di una tappa della mitica disfida: come se una favola ti entrasse in casa. Il traguardo era al Rastrello, che sfoggiava un’invidiabile pista in terra battuta: campo di calcio e velodromo. Trionfò Adolfo Leoni, un campione di tutto rispetto, idolatrato per la sua eleganza da gentleman. A Rieti, sua città di elezione, si trova un monumento in suo onore. Leoni era fresco di nozze: nell’ottobre del ’47 aveva sposato una ragazza di Firenze Maria Luisa Cioni, soprano di successo. Ma gli occhi nell’eccitante pomeriggio senese del 20 maggio 1948 erano tutti per Giordano Cottur, allampanato e dentuto triestino in rosa. Innegabile che un certa vena di patriottismo lo elevasse a simbolo rendendolo portatore di valori non solo agonistici. Il ciclismo ha avuto molto a che fare con una tifoseria politica. Riuscìi a strappagli un autografo che non ho più ritrovato.
Bartali, inseguito da Silvio Gigli, si sottrasse svelto all’assalto delle truppe che lo veneravano. Lungo il tragitto le scritte inneggianti a Gino avevano emanato un’aria di festa regionale. Il resoconto dell’inviato Indro Montanelli è un’ironica pagina da antologia: "Sulla soglia dei paesi, le popolazioni – scrisse – ci aspettavano col sindaco alla testa. Questi sindaci però non entravano in stato d’agitazione quando passavano i corridori, ma solo quando appariva l’automobile dei colleghi de ’l’ Unità’ cui tendevano, con generoso slancio, insieme ai fiaschi di vino, anche il proprio biglietto da visita. I colleghi de ’l’Unità’ buttavano via il biglietto da visita , ma scolavano i fiaschi di vino". Mica vero, ma Montanelli non si tratteneva dall’infiocchettare con battutacce il pezzo di colore.
Altra tappa quella del 1952: al Rastrello salì sul podio Antonio Bevilacqua, professionista colto e compito, iridato dell’inseguimento. La mattina dopo, la partenza verso la capitale scoccò da Porta Romana. Nel trambusto, animato da tripudianti scolaresche, spiccava un Hugo Koblet in rosa che s’apprestava a celebrare la prima affermazione di uno straniero nell’italianissima gara. L’atmosfera aveva assunto una vivacità cosmopolita. Nel 1957 l’alloro della decima tappa toccò a Miguel Poblet. Nel 1978 la Assisi-Siena fu appannaggio di Francesco Moser e tuttora si legge qualche sbiadita scritta incitatrice sui muri.
Infine nel 1986 fu applaudito, era il 23 maggio, il baffuto polacco Lech Piasecki. Da otto anni un papa polacco sedeva nella cattedra di Pietro. Anche il Giro assoldava una partecipazione sempre più larga e più europea. L’entusiasmo che Cottur aveva scatenato per Trieste non ancora italiana era storia passata.