
Immagine da un centro diurno, con ragazzi disabili seguiti mentre fanno attività (foto d’archivio)
Becchi e bastonati si dice a Prato: ci si sente così dopo l’ennesimo provvedimento che coinvolge la disabilità e le famiglie di caregiver che si occupano dei figli della società "nati difettosi" o "invecchiati male" e che, per conto della società, se ne fanno carico ogni giorno. Il taglio dei trasporti verso i centri diurni è l’ennesima mazzata che ci troviamo a dover beccare, fra capo e collo, su un corpo martoriato già da mille ferite, lungo un calvario di mancate risposte, dimenticanze e servizi che sono sempre più inferiori alla domanda, con "poste" che fanno capo ad ogni ordine, dal Governo centrale, alla Regione, ai Comuni.
Quindi, dopo notti insonni passate ad accudire i nostri cari, giornate dedicate ad individuare la cura farmacologica giusta, pomeriggi impegnati ad accompagnarli alle terapie, serate trascorse a piangere nascosti in bagno (eh, sì, per il tuo ruolo di caregiver devi sfoggiare sempre il sorriso e la tua grande forza) a lenire il dolore di costole rotte, spalle lussate e occhi neri, adesso ti vengono a dire che dovrai pure montare il "fardello" su una macchina e accompagnarlo personalmente nel luogo di cura e socializzazione, la mattina presto, l’unico momento del giorno in cui trovi un attimo per lavarti il viso.
Indistintamente: che tu abiti molto lontano dai servizi, che tu sia anziano o che tu abbia a tua volta un’invalidità, ma solo per un principio di esclusione che tiene conto dei redditi della famiglia, che possono essere portati anche da altri figli o dalle pensioni di nonni a loro volta disabili o da un’abitazione che hai sudato a mettere in piedi per lasciare un tetto sul capo al proprio caro quando non ci sarai più. E qui arriva l’ulteriore colpo basso: sei messo davanti ad una scelta, fra sacrificare ulteriormente qualcosa dalla sua vita e ancora della tua o rinunciare al posto nel diurno e quindi alla cura. Una scelta, quale che sia, che dovrai poi giustificare al giudice tutelare, nella tua veste di amministratore di sostegno o di tutore.
Una questione economica, sì, e non di poco conto visto che si andrà a frugare nelle tasche delle famiglie anche per 360 euro al mese, su pensioni che sono di 600 euro. Ma una questione anche di principio, visto che il cosiddetto "trasporto sociale" è inserito nei servizi alla "domiciliarità", ovvero in quella serie di aiuti alle famiglie che hanno scelto di accudire il proprio caro a casa, per il suo bene e per quello dei conti pubblici, visto che l’istituzionalizzazione comporta spese ben più alte (e anche posti letto, che ad oggi non ci sono).
E mentre nuoti nella bava della scialorrea del tuo vecchio, schivi oggetti lanciati in un meltdown autistico, cavalchi la giostrina del turnover delle assistenti sociali e contratti come al mercato dei cammelli la tariffa che dovrai pagare, da escluso al servizio, a chi effettuerà il trasporto del tuo caro, intravedi la famosa luce in fondo al tunnel: la notizia del ricorso al Tar vinto da una mamma "coraggio", nelle Marche, dove si stabilisce che il trasporto è considerato "strumentale e accessorio" al servizio a cui accompagna, di tipo socio sanitario, e per questo l’Isee da considerare per la compartecipazione è quello ristretto (ovvero limitato ai redditi dell’utente), e non quello della famiglia.
Siamo diventati oss, psichiatri, diabetologi, logopedisti e infermieri, per amore, ma la toga è un indumento che non dovremmo mai essere costretti ad indossare, in una società che dovrebbe guardare a tutti i suoi figli, ai primi come agli ultimi.
Claudia Iozzelli