CLAUDIA IOZZELLI
Cronaca

Una vita da caregiver: "Ecco perché non è solo una questione economica"

L’assistenza ai figli disabili vissuta in prima persona. "Quel servizio significa cura. E’ questione di principio. Una mamma coraggio ha vinto il ricorso al Tar".

Immagine da un centro diurno, con ragazzi disabili seguiti mentre fanno attività (foto d’archivio)

Immagine da un centro diurno, con ragazzi disabili seguiti mentre fanno attività (foto d’archivio)

Becchi e bastonati si dice a Prato: ci si sente così dopo l’ennesimo provvedimento che coinvolge la disabilità e le famiglie di caregiver che si occupano dei figli della società "nati difettosi" o "invecchiati male" e che, per conto della società, se ne fanno carico ogni giorno. Il taglio dei trasporti verso i centri diurni è l’ennesima mazzata che ci troviamo a dover beccare, fra capo e collo, su un corpo martoriato già da mille ferite, lungo un calvario di mancate risposte, dimenticanze e servizi che sono sempre più inferiori alla domanda, con "poste" che fanno capo ad ogni ordine, dal Governo centrale, alla Regione, ai Comuni.

Quindi, dopo notti insonni passate ad accudire i nostri cari, giornate dedicate ad individuare la cura farmacologica giusta, pomeriggi impegnati ad accompagnarli alle terapie, serate trascorse a piangere nascosti in bagno (eh, sì, per il tuo ruolo di caregiver devi sfoggiare sempre il sorriso e la tua grande forza) a lenire il dolore di costole rotte, spalle lussate e occhi neri, adesso ti vengono a dire che dovrai pure montare il "fardello" su una macchina e accompagnarlo personalmente nel luogo di cura e socializzazione, la mattina presto, l’unico momento del giorno in cui trovi un attimo per lavarti il viso.

Indistintamente: che tu abiti molto lontano dai servizi, che tu sia anziano o che tu abbia a tua volta un’invalidità, ma solo per un principio di esclusione che tiene conto dei redditi della famiglia, che possono essere portati anche da altri figli o dalle pensioni di nonni a loro volta disabili o da un’abitazione che hai sudato a mettere in piedi per lasciare un tetto sul capo al proprio caro quando non ci sarai più. E qui arriva l’ulteriore colpo basso: sei messo davanti ad una scelta, fra sacrificare ulteriormente qualcosa dalla sua vita e ancora della tua o rinunciare al posto nel diurno e quindi alla cura. Una scelta, quale che sia, che dovrai poi giustificare al giudice tutelare, nella tua veste di amministratore di sostegno o di tutore.

Una questione economica, sì, e non di poco conto visto che si andrà a frugare nelle tasche delle famiglie anche per 360 euro al mese, su pensioni che sono di 600 euro. Ma una questione anche di principio, visto che il cosiddetto "trasporto sociale" è inserito nei servizi alla "domiciliarità", ovvero in quella serie di aiuti alle famiglie che hanno scelto di accudire il proprio caro a casa, per il suo bene e per quello dei conti pubblici, visto che l’istituzionalizzazione comporta spese ben più alte (e anche posti letto, che ad oggi non ci sono).

E mentre nuoti nella bava della scialorrea del tuo vecchio, schivi oggetti lanciati in un meltdown autistico, cavalchi la giostrina del turnover delle assistenti sociali e contratti come al mercato dei cammelli la tariffa che dovrai pagare, da escluso al servizio, a chi effettuerà il trasporto del tuo caro, intravedi la famosa luce in fondo al tunnel: la notizia del ricorso al Tar vinto da una mamma "coraggio", nelle Marche, dove si stabilisce che il trasporto è considerato "strumentale e accessorio" al servizio a cui accompagna, di tipo socio sanitario, e per questo l’Isee da considerare per la compartecipazione è quello ristretto (ovvero limitato ai redditi dell’utente), e non quello della famiglia.

Siamo diventati oss, psichiatri, diabetologi, logopedisti e infermieri, per amore, ma la toga è un indumento che non dovremmo mai essere costretti ad indossare, in una società che dovrebbe guardare a tutti i suoi figli, ai primi come agli ultimi.

Claudia Iozzelli