
Renato Cecchi della Santo Stefano
Prato, 20 agosto 2015 - «Leggo che si fa a gara a lavorare d’agosto. Trovo che sia una pazzia se lo si fa a tariffe stracciate facendosi prendere per il collo dai lanifici. E questi dovrebbero accorgersi che stanno tagliando il ramo sul quale sono seduti». Non ha peli sulla lingua Renato Cecchi, ottantatré anni portati alla grande, mente lucidissima, arguzia tagliente, «grande vecchio» del tessile pratese di cui conosce ogni segreto perché prima o poi tutti i tessuti passano dalla sua Rifinizione Santo Stefano. Cecchi parla dalla tenuta di Camaiore, dove del mare si respira l’odore ma non si percepiscono i clamori. «Ieri sera sono andato a letto stanco morto dopo aver lavorato tuto il giorno fra gli ulivi. Ed è una bella stanchezza, mi creda». Cecchi è reduce da un affare «di serie A» appena concluso con la D’Avenza, la confezione di lusso con sede a Carrara di cui è titolare e che ha stretto l’accordo con Lamborghini per una linea di capi di abbigliamento da uomo con il marchio di entrtambe le aziende, da commercializzare negli show room e nelle concessionarie della casa automobilistica. «Ci hanno cercato loro, ho detto di sì. E ho provato una loro macchina, Che macchina». Cecchi, a Prato c’è chi rimane aperto tutto agosto. «Io ho chiuso il 6 e riapro a settembre. Ai macchinari fa bene fermarsi un po’ per le manutenzioni che effettuiamo in questi giorni. Fermarsi fa bene anche agli uomini e alle aziende. Che senso ha lavorare sempre, se si viene presi per il collo dai lanifici?». Borelli, ieri, su La Nazione spiegava che lui lavora in agosto con buoni margini, pur avendo rifiutato la commessa sottocosto offerta un po’ a tutte le tessiture. «Non conosco Borelli, ma so che i lanifici strizzano sempre più i terzisti. E fanno male anche a se stessi, perché se tolgono il respiro ai terzisti chi investe più a Prato? Io ho centosessanta dipendenti, macchinari, capannoni. Gli impannatori hanno un magazziniere due o tre impiegate. Il resto lo prendono dall’interinale quando hanno bisogno. Non hanno più le rammendine, le campionariste di una volta, col cuore in azienda, le donne che erano le vere padrone delle fabbriche». Se gli impannatori «strozzano» ci sarà un motivo. «Sì. Che sono a loro volta strozzati dalle grandi case: Armani, Dolce e Gabbana, Max Mara, Gucci, Zara e non escludo nessuno, dico nessuno, giocano al ribasso. Se non accetti lo sconto vanno da un altro. I lanifici accettano e si rifanno sui terzisti». Sembra una legge di natura.«Le griffe dovrebbero tenersi cari i pratesi. Solo qui l’idea di uno stilista diventa nel giro di cinque giorni un cencio, un campione magari grezzo, approssimativo, ma nel quale già si legge la stoffa o addirittura il capo finito che diventerà. Provino a chiederlo ai cinesi, quel cencio, i signori della moda».
E invece?
«E invece a Prato chiudono i gentiluomini. Che hanno pagato tutti e magari cambiano mestiere. Uno di questi, che aveva un lanificio modello, è venuto a trovarmi ieri mattina. Mi ha detto: Non ne potevo più di sentirmi dire dai vari Armani che il prezzo non va bene. In quel prezzo io comprendo tutto: il mio utile, salari dei dipendenti, compensi ai fornitori».
Cinesi: un bene o un male? «Nel ’95 andai in Cina. Dissi che vent’anni dopo sarebbero stati la prima potenza mondiale. Ci andai vicino. Se non ci fossero, avremmo migliaia di metri quadrati vuoti nei Macrolotti». Ha un futuro il tessile a Prato? «Solo se i giovani avranno voglia di investire, resistendo a due tentazioni: la Ferrari con cui divertirsi e la finanza vista come strada più agile per fare quattrini. Se i pratesi smetteranno, magari arriveranno i cinesi, diventeremo la Shangai italiana». E lei che farà, a quel punto? «Ha presente quanti anni ho? E quanto ho lavorato? Giorni fa è morto Roberto Berni, il caporeparto di cui sono stato amico e compagno di caccia. E’ morto nel suo letto con dignità, senza farsi ricoverare. Diceva sempre: “Mi aspetta la bara“. Lo detto per più di vent’anni e se permette lo dico anch’io». Via, signor Cecchi. «E’ un modo di dire. Penso che potrei ritirarmi qui a Camaiore. La terra mi piace. Non prendo più il trattore però. Sono morti in quattro o cinque di recente. Vent’anni fa mi rovesciai e mi salvò la vita proprio Berni. Otto costole e la scapola rotte». Ah, si ritirerà in campagna. Meglio così. E L’azienda? «Andrà a mio genero Pietro Polidori. E al Covilisino, Gino Covili, un collaborartore che ha fatto le fortune della Santo Stefano». E i pratesi? «Nell’85 anno in cui si lavorava tutti anche la domenica mattina uscii dall’Unione. Lucchesi e il suo successore Romano Lenzi mi portarono a cena per riconciliarci: c’erano anche Capponcelli e Gigi Sguanci. Dissi che i problemi di Prato erano tre: la Cassa di Risparmio che aveva foraggiato tutti, facendo crescere a dismisura il numero delle filature, allora costrette a dissanguarsi per lavorare tutte. Poi l’Unione che non faceva quasi nulla per arginare quello sviluppo anomalo. Infine, i pratesi. Che pur di lavorare avrebbero messo nelle pezze un foglio da centomila lire. Guardavano ai metri e a rubarseli a vicenda più che ai margini di guadagno». E ora? «Siamo gli stessi. Mi si stringe il cuore guardando Sassuolo e Carpi, distretti che hanno vissuto crisi più dure della nostra e che sono sopravvissuti grazie alla coesione che si è manifestata anche fuori dal lavoro, se hanno portato le loro squadre in serie A». Vent’anni fa ad agosto invitava a cena nella sua tenuta a Camaiore i pratesi in Versilia. Non lo fa più? «Sono vecchio. E certe amicizie si attenuano. Però, ora che ci penso, mi ha quasi dato un’idea».
Piero Ceccatelli