LAURA NATOLI
Cronaca

'Mia madre muore, fatemi uscire'. Ma il detenuto deve restare in cella

La polemica dell’avvocato: ‘Si usa umanità soltanto per Riina’

Il carcere della Dogaia dove il detenuto sconta la pena (foto d'archivio)

Prato, 10 giugno 2017 - «Il principio di ‘umanità’ che viene riconosciuto a personaggi come Totò Riina dovrebbe valere anche per detenuti meno ‘famosi’». Nel momento in cui il pronunciamento della Cassazione sulla possibile scarcerazione di Riina per le malattie da cui è afflitto fa discutere mezza Italia, arriva da Prato un caso che, pur non avendo le stesse motivazioni, lo ricorda nella sostanza: è quello di Antonio Centonze, 49 anni originario di Brindisi, in carcere alla Dogaia per scontare una pena a quattro anni per minacce aggravate dall’aver favorito un’associazione di stampo mafioso. Centonze, assistito dall’avvocato Costanza Malerba, non può godere di benefici e sconti perché ha una condanna sulle spalle con un’aggravante mafiosa. I suoi benefici potrebbero passare solo attraverso la «collaborazione» che, in questo caso, non c’è.

«Solo di fronte a ‘gravi motivazioni’ Centonze può accedere a certi benefici», spiega il legale. Ebbene, l’avvocato ha chiesto al giudice di sorveglianza il permesso per il suo assistito di poter uscire dal carcere per fare visita alla madre in fin di vita all’ospedale di Brindisi. «Un motivo grave – aggiunge – perché si parla di un congiunto stretto in gravissime condizioni di salute e, quindi, dovrebbe essere un diritto anche per un detenuto poterlo salutare per l’ultima volta». Il detenuto ha ottenuto dal giudice un permesso per uscire dalla Dogaia con scorta il 26 maggio. La visita alla madre, però, non è mai avvenuta. «In questi casi la pratica viene passata al Ministero, al dipartimento di amministrazione penitenziaria di Roma per l’esattezza – spiega Malerba – che deve indicare il carcere di assegnazione più vicino all’ospedale, in questo caso, Brindisi. La risposta, però, non è mai arrivata». Intanto la madre di Centonze è morta. «A quel punto abbiamo cambiato richiesta – aggiunge il legale – e abbiamo presentato istanza perché il detenuto potesse assistere almeno alla sepoltura, rinviata di un giorno per dare la possibilità al figlio di essere presente. Il giudice ha dato il consenso all’uscita dal carcere e al trasferimento a Brindisi. Ma l’iter si è bloccato di nuovo al dipartimento romano. C’è stata grande disponibilità da parte del giudice di sorveglianza e della polizia penitenziaria della Dogaia ma non abbiamo avuto nessuna risposta da Roma. Centonze è sempre rimasto a Prato». Il problema è che trattandosi di un condannato per un reato in odor di mafia, il dipartimento di amministrazione penitenziaria non comunica la data del trasferimento e il carcere di riferimento, ma esegue lo spostamento «a sorpresa». Questa volta troppo tardi.

«Si parla della necessità che l’espiazione della pena si conformi al principio di umanità e non consenta trattamenti disumani o degradanti – dice l’avvocato Malerba – Questi principi vengono rivisitati per personaggi importanti, come Riina, ma per altri no. La violazione del principio di umanità della pena e della dignità della persona e dei suoi sentimenti sono quotidiani nelle nostre carceri, come nel caso del Centonze, e non per colpa del magistrato ma per colpa della burocrazia ministeriale a cui bisogna chiedere a quale carcere deve essere associato un detenuto. La madre di Centonze è stata sepolta ma nessuna voce è arrivata dal Ministero. La dignità dovrebbe essere uguale per tutti».