
PRATO Siamo arrivati a Mauthausen. Ci sono luoghi in cui la natura pare voler nascondere, sotto il velo della sua armonia,...
PRATOSiamo arrivati a Mauthausen. Ci sono luoghi in cui la natura pare voler nascondere, sotto il velo della sua armonia, l’abisso dell’orrore umano. Mauthausen è uno di questi. Il primo impatto è straniante: il verde delle colline, la luce limpida, il silenzio che avvolge ogni cosa. Eppure, tra quei muri di pietra, l’umanità ha conosciuto uno dei suoi precipizi più profondi. I forni crematori, le baracche, il filo spinato. Si entra in un mondo "al contrario", così i deportati definivano i campi di concentramento. I valori vengono ribaltati: la solidarietà, l’altruismo, la bontà, sono cancellati. La nostra città è, purtroppo, strettamente legata a questo campo. Qui giunsero 132 deportati pratesi dopo lo sciopero del marzo 1944. La nostra visita inizia da un luogo, il cui nome già preannuncia parecchio: "la scala della morte". E’ una ripidissima scala di 186 gradini, che i deportati erano costretti a scendere e salire portandosi pesanti blocchi di granito sulla schiena prelevati da una cava poco distante dove i deportati erano costretti a lavorare in condizioni disumane, da mattina a sera. Accanto alla scala c’è una parete rocciosa, "la parete dei paracadutisti", denominata così in modo macabro: i nazisti lanciavano i deportati dalla cima. Entriamo nel campo. Ci fermiamo nel mezzo, nel Piazzale dell’appello, dove i deportati venivano radunati due o tre volte al giorno. Persone, senza più un nome, chiamati con il numero di matricola loro assegnato. L’appello era in tedesco e chi non comprendeva il proprio numero veniva picchiato duramente. Ci è stato illustrato il processo di introduzione al campo: chi era ritenuto abile a lavorare veniva scelto mentre, donne, bambini e anziani erano solitamente scartati e mandati subito nelle camere a gas. Chi aveva superato la selezione era costretto a fare una doccia, l’acqua era alternativamente calda e fredda. Dopo una quarantena di 14 giorni per evitare che i deportati facessero perpetrare nel campo malattie o pidocchi, ricevevano la divisa, e venivano assegnati alla loro mansione. Abbiamo visitato le baracche dove dormivano i deportati ammessati. Poi, la parte più delicata della nostra visita. Le camere a gas e i fornì crematori A fianco, una stanza con i nomi. Un camminamento doloroso di nomi, siamo inermi. Non vi sono tombe, solo lapidi simboliche, fantasmi.Per noi non è stato un semplice atto commemorativo, ma un attraversamento interiore. In quel silenzio così denso, una voce sommessa ci ammonisce: ricordare non è sufficiente, bisogna comprendere. Comprendere per vigilare. Vigilare per restare umani. Ci siamo spostati ad Ebensee, la città gemellata con Prato grazie alla volontà di tanti deportati che avevano vissuto quell’orrore, tra cui Roberto Castellani e Dorval Vannini. Spinsero fortemente per la stipulazione di questo gemellaggio, in quanto era l’unico modo per tenere viva la memoria di ciò che era successo, nel luogo ove essi stessi furono deportati, Partecipiamo alla "camminata della pace". Di quel campo non rimane nessuna traccia. Il campo, infatti, fu distrutto, subito dopo la seconda guerra mondiale, per cercare di eliminare e dimenticare al più presto l’orrore compiuto. Dell’ex campo, rimane soltanto il portale d’ingresso. Negare è ancora oggi un problema. Negare e dimenticare. Ma noi, non vogliamo dimenticare