
Da 22 anni primario di oculistica all’ospedale di Prato, Ivo Lenzetti è prossimo a lasciare il suo incarico. Alle soglie del settantesimo anno di età, pensa che sia arrivato il momento della pensione anticipando di qualche mese la scadenza effettiva della sua funzione. Nato a Montacuto, a pochi chilometri da Bologna, Lenzetti ha vissuto sin da piccolo nella nostra città in cui è cresciuto e si è culturalmente formato fino all’università frequentata a Firenze. Considerato uno dei pionieri delle tecniche d’avanguardia in campo oftalmologico, precursore con largo anticipo di sinergie con paesi d’oltreoceano, ha impresso alla sua ‘scuola’ rigore e abilità professionale ma anche tutto lo stile e l’eleganza tipici dei suoi tratti personali e di un carattere improntato alla riservatezza e alla sobrietà. Schivo fino alla timidezza, si è concesso molto raramente ai media. La sua immagine è ora quella di una persona rilassata, con la serenità e una punta di malinconia nello sguardo di chi ha fatto bene e lascia il testimone nelle mani di specialisti all’altezza del loro compito.
Dottor Lenzetti, come e quando ha iniziato la sua attività di oculista?
"Era il lontano 1986 quando ho iniziato le prime sostituzioni. Ma solo circa dieci anni dopo sono entrato di ruolo mentre c’era alla direzione del reparto un maestro della statura di Giulio Baquis, anche se la mia più solida formazione la devo a luminari come Giuseppe Salvi, mio professore all’università. Poi dal 2000 è toccato a me prendere le redini e cercare di fare del mio meglio, magari mettendoci qualcosa di assolutamente nuovo, di mio".
Ed è quello il periodo in cui si sviluppa una rete di interscambio a livello scientifico con importanti centri statunitensi...
" Sì. Nel 2004 ho iniziato a collaborare con il Bascom Palmer Eye di Miami, nella persona del professor Jeam-Marie Parel e poi nel 2013 con la ricercatrice Heather Durkee del Biomedical Engineer, interscambio che ha portato significative novità nell’ambito della chirurgia laser sperimentale e delle microscopie avanzate. E’ stata un’occasione preziosa per proseguire negli studi e sperimentare tecniche in grado di correggere importanti disturbi della vista come la presbiopia. Grazie a questa sinergia con Miami è stato possibile portare per la prima volta in Italia il laser a femtosecondi per i tagli corneali e un Laser a diodo per le suture. All’epoca riuscii a contare sulla lungimiranza di un intelligente direttore generale che vide nell’acquisto di quegli strumenti all’avanguardia un significativo dilatarsi degli orizzonti applicativi: compimmo difficili operazioni per quel tempo, tutte perfettamente riuscite".
C’è qualcosa di cui va particolarmente fiero adesso che è tempo di bilanci?
"Direi che il fatto di aver disegnato, voluto e realizzato il mio reparto così come lo avevo sempre immaginato è un fiore all’occhiello di cui sono particolarmente orgoglioso. In perfetta sintonia con l’architetto fu entusiasmante veder prendere vita a linee e forme che erano nella mia testa. Un posto che fosse funzionale, ben attrezzato ma anche bello a vedersi. Perché l’estetica nella sua massima espressione eleva lo spirito. Quindi con sale operatorie scintillanti, con il parquet per terra, ne avevo fatto il reparto più bello in assoluto di tutto l’ospedale di Prato. Un magnificenza d’altri tempi in cui le cose funzionavano in bel altro modo rispetto ad oggi".
Tutto molto diverso...
"Il criterio attuale è quello del poliambulatorio, dove tutto è parecchio mescolato. Il risultato è stato ridursi in pochi, striminziti spazi perché di fatto i reparti sono scomparsi e ci hanno infilati tutti quanti in un calderone che non può offrire le stesse performance di una unità specificamente attrezzata".
E tutto questo perché è accaduto?
"Perché è mutata la filosofia e la strategia degli ospedali. Sale operatorie centralizzate, promiscuità di attrezzature e spazi: insomma ogni scelta è all’insegna del risparmio a tutti i costi".
C’è un caso umano che nella sua lunga carriera le è rimasto impresso?
"Ce ne sono tantissimi e tutti hanno per me identica importanza. Se si fa la professione di medico con passione si scopre presto che ogni persona reca con sé tutto un bagaglio di ansie e di speranze. Chi si rivolge a un oculista non sempre lo fa per una banale congiuntivite. Può accadere che dietro a un disturbo apparentemente insignificante o, peggio, trascurato si nascondano patologie serie. Ridare il sorriso a gente giustamente spaventata da una diagnosi infausta è il bello del mio mestiere".
Adesso è arrivato il momento dell’addio, cosa le dispiace di più?
"Lasciare tante persone che stimo e a cui va tutto il mio affetto, collaboratori e colleghi validi che spero di aver contribuito a formare. Una seconda famiglia. Ma il mio commiato è limitato al Santo Stefano di Prato perché ci sono in ponte progetti interessanti grazie ai quali conto di poter stare di nuovo accanto alle tantissime persone che ancora credono in me".
Guido Guidi Guerrera