
"Geniale interprete dell’italianità" Mazzoni: la libertà la sua bussola
di Riccardo Mazzoni*
Il 2 giugno del 2009 Silvio Berlusconi parlò nell’anfiteatro del museo Pecci, stracolmo di gente, dando la spinta decisiva allo storico successo di Roberto Cenni. Non fu difficile convincerlo a fare tappa qui, e quella resta forse la pagina più bella di quei magnifici e faticosi anni di ribaltone politico pratese. Mi chiedete un ricordo del Presidente e lo faccio volentieri, anche se con dolore misto a imbarazzo, perché ai tempi del Patto del Nazareno io lasciai Berlusconi e Forza Italia, anche se poi mi riaccolse a braccia aperte, riprendendo così il lungo percorso iniziato nel Duemila al Mattinale di Palazzo Grazioli, al fianco di Paolo Bonaiuti e di Riccardo Berti, una indimenticabile esperienza di politica e di vita. Perché Berlusconi non si stancava, in ogni riunione, di riaffermare il suo Credo liberale, che è stata la sua bussola esistenziale insieme all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. "Non abbiamo mai approvato una legge che potesse ridurre gli spazi di libertà dei cittadini. Non abbiamo mai compiuto una scelta di politica internazionale che non fosse dalla parte dell’Occidente, dalla parte della libertà". Al centro della sua visione, dunque, c’era solo e soltanto la persona, portatrice per sua natura di diritti che non sono concessi dallo Stato, ma che lo Stato ha il dovere di garantire e di tutelare. Un vero bardo della libertà.
Berlusconi è stato un populista? Il primo grande populista della seconda Repubblica? Certo che lo è stato, senza mai però spargere odio e sconquassare la democrazia: l’odio nelle vene delle istituzioni lo hanno sparso infatti solo i suoi avversari, e chi lo ha paragonato a Trump di lui non ha capito nulla. La sua discesa in campo, nel ’94, restituendo dignità a un elettorato a un corpo sociale a cui Mani Pulite aveva tagliato la testa, rimise infatti in equilibrio l’asse della democrazia, non lo stravolse. Fu, quello, il peccato originale che la sinistra non gli avrebbe mai perdonato, condannando l’Italia a un’estenuante guerra di posizione culminata con la cacciata dal Senato, il 27 novembre 2013. L’aula, quel giorno – io c’ero – si trasformò in un implacabile sinedrio, o meglio in un tribunale del popolo ansioso di azionare la ghigliottina politica dopo che quella giudiziaria aveva fatto diligentemente il suo corso. Una pagina nera per la democrazia, in cui furono stracciate norme, prassi e regolamenti pur di consumare la vendetta contro il leader che aveva impedito alla sinistra di conquistare il potere dopo la fine della prima Repubblica. Un accanimento politico-giudiziario del resto confermato, perfino ora che è morto.
Ma Berlusconi è stato un combattente che ha saputo resistere a tutto: agli avversari cui ha sempre teso una mano, come ai mille pm che lo hanno inquisito, e la sua grande umanità ha sempre sovrastato le sue debolezze umane. Non lasciava indietro nessuno, Silvio, e nei momenti difficoltà sapeva starci premurosamente vicino come e più di un amico di famiglia. Il Cavaliere nero, il Caimano, aveva insomma testa, determinazione, coraggio, ma anche più anima di tutti: è stato un geniale interprete dell’italianità, un grande imprenditore e un leader politico eccentrico, un uomo del fare e un populista, un rivoluzionario e un riformista, un capitano d’industria e un presidente operaio, ossimori che si attagliano perfettamente alla sua natura geniale.
E anche Forza Italia fu un autentico colpo di genio, anche se la Rivoluzione liberale è poi rimasta largamente incompiuta. Come nelle tragedie greche, Berlusconi è stato il deus ex machina di una saga ineguagliabile, e tante volte la sua scomparsa dalla scena politica è stata solo un’illusione ottica, a dispetto di tutte le congiure. Ora la leucemia ha scritto la parola fine, ma la sua luna non è mai tramontata: ha scritto un tratto di storia, e la storia lo ricorderà. Alla famiglia lascia un impero, al partito un’eredità politica che speriamo non vada dispersa.
* Giornalista, ex collaboratore di Berlusconi, ex parlamentare