
Gli operatori della comunità di Masotti (Foto Luca Castellani)
Pistoia, 5 giugno 2016 - «La difficoltà più grande quando arrivano qui? Addormentarsi la sera da soli. Perché è vero che chi entra in comunità ha già provato i centri diurni e le terapie, ma non bisogna dimenticare che si tratta di ragazzini, che per la maggior parte si staccano per la prima volta dalle proprie case, e dalle proprie famiglie». La comunità di recupero per tossicodipendenti del Ceis di Pistoia è nata a Masotti, esattamente tre anni fa, a giugno del 2013, ma forse non tutti sanno che è la sola in Toscana dedicata ai minorenni. Un casolare immerso nel verde, isolato ma non chiuso, che lascia entrare la luce dalle enormi vetrate. Cucine, sale gioco e relax, la falegnameria al piano terreno, e sopra le camere dei ragazzi. Ad accompagnarci in questo viaggio ci sono il presidente del Ceis di Pistoia, Franco Burchietti, e lo staff di psicologi, psicoterapeuti e infermieri che vivono con i ragazzi: otto operatori «contro» dieci ospiti. C’è Martina Pastacaldi, responsabile della Comunità, gli psicoterapeuti Samantha Scuderi, Simona Gori, lo psichiatra e tossicologo Giuseppe Giuntoli (consulente esterno), e gli operatori, Marco Semenzato e Simone Benelli. La vita, in comunità, è scandita da compiti e tempi che fissano una tabella di marcia comune: i pasti, i laboratori, la palestra. Quello che non bisogna mai dimenticare è che si lavora in emergenza. Le emergenze sono le richieste di collocamento coatto da parte della giustizia minorile, per esempio. E l’emergenza sono le crisi improvvise dei ragazzi, esplosioni di un’emotività che non si controlla e che spesso porta gli operatori a dover gestire situazioni anche pericolose.
Prendere decisioni in fretta, proteggere i ragazzi da loro stessi: sono queste le prove più dure. E’ dalla comunità di Masotti che è fuggita la ragazzina di 17 anni, poi soccorsa per overdose a Firenze. Oggi lei è fuori pericolo e gli altri ragazzi stanno superando insieme il trauma che quella fuga ha prodotto nel gruppo. Ma chi sono gli adolescenti che entrano in comunità? Quanti anni hanno e quanto ci restano? «Qui arrivano i casi più difficili – spiegano i terapeuti –. Ce li segnala il Sert dell’Asl oppure la giustizia minorile. Sono ragazzi spesso giovanissimi, a volte hanno 14 o 15 anni. Sono ragazzi che hanno abbandonato la scuola, spesso non hanno nemmeno la terza media». «Di solito, il percorso in comunità non dura meno di un anno o un anno e mezzo – chiarisce il presidente Burchietti – All’inizio il centro era stato pensato per gestire la fase acuta, e aveva come obiettivo solo quello della disintossicazione. Oggi, oltre alla riabilitazione fisica e psicologica, accompagniamo i ragazzi al completo reinserimento, li prepariamo alla loro vita fuori di qui, e quando riusciamo troviamo loro un lavoro». Come si cade nella trappola della tossicodipendenza? «Si inizia in gruppo, per provare, spesso per imitare gli amici, con l’alcol, le canne – raccontano gli psicologi della comunità –. Poi si passa alle anfetamine e mdma, e infine alle droghe pesanti: la cocaina e l’eroina, da fumare però, perché farsi in vena è da tossico, invece chi la fuma non si sente un drogato ed è certo di poter smettere in ogni momento. Procurarsi una dose è facile, anche per un adolescente. E’ sufficiente la paghetta settimanale, o anche meno. Spesso fanno la colletta in gruppo e vanno a comprarla. E, se non basta, si vendono quello che hanno: le magliette, le scarpe, le loro cose. A quel punto sono disposti a tutto, pur di non sentire niente, di estraniarsi come dicono loro». Ma quale è il male da cui scappano? Che cosa un ragazzino di 13 anni vuole non sentire? «La tossicodipendenza non arriva mai da sola – chiariscono gli psicoterapeuti –. Prima c’è un disturbo del comportamento e prima ancora un dolore.
E’ il dolore che li fa sprofondare. Hanno bisogno di amore questi ragazzi, e molto spesso nascondono situazioni famigliari difficili: genitori assenti o separati o malati, a loro volta con disturbi psichici». Le famiglie sono fondamentali nel percorso riabilitativo dei giovani pazienti non perché necessariamente siano esse la causa del problema, ma perché quasi sempre la soluzione non può prescindere dalla loro partecipazione. I genitori prendono parte agli incontri con gli operatori della comunità e fanno visita ai ragazzi». «Madri e padri spesso non riescono a gestire il figlio tossicodipendente – raccontano gli operatori – Ci sono stati genitori che, davanti alla crisi del figlio, erano disposti ad uscire per procurargli la dose, pur di non vederlo soffrire». Allora, come si fa a far ripartire questi ragazzi «interrotti»? «Colmando quel vuoto normativo che serve a dare un senso e un valore al loro tempo – spiegano gli operatori di comunità –. Quello che manca ai ragazzi è un tempo strutturato, le regole e qualcuno che vegli perché loro le rispettino». Se tutto è permesso, vuol dire che ogni cosa è indifferente, e nessuno vuole essere indifferente per gli altri. E’ qui che inizia la considerazione di sé.