
L'interno di un ospedale (foto d'archivio)
Pistoia, 5 febbraio 2017 - «Medici, infermieri e operatori sanitari sono costretti a lavorare in continua emergenza, a districarsi tra carenza di personale e posti letto. Se mia figlia fosse stata controllata ore dopo forse l’intervento chirurgico, avvenuto in emergenza, non sarebbe andato a finire così bene». A lanciare l’allarme per una situazione che definisce al collasso nel pronto soccorso del San Jacopo questa volta è una mamma pistoiese la cui figlia di 18 anni si è vista asportare l’appendice con un principio di peritonite dopo 48 ore dal primo accesso al pronto soccorso a causa «dell’assenza di posti letto» nel reparto chirurgico. La ragazza, mandata al nosocomio dal medico di famiglia dopo la verifica dei primi sintomi, ha dovuto pernottare a casa e poi tornare il giorno seguente dove, nel pomeriggio, durante l’indagine laparoscopica per valutare la possibilità dell’asportazione dell’appendicite il chirurgo si è visto costretto a procedere nell’immediato per evitare conseguenze ben più gravi.
«Tutto è iniziato lunedì 16 gennaio – racconta la donna – mia figlia comincia ad accusare un malessere localizzato, tale da far sospettare, anche ad una profana come me, un’infiammazione all’appendice. Così alle 17 del pomeriggio ci rechiamo dal medico di base, che dopo le manovre di prassi ci indica la soluzione: pronto soccorso e senza indugi. Alle 18.30 entriamo. La sala d’aspetto è stracolma, ma il codice d’accesso, con la richiesta del medico ci permette di entrare subito. Prima indagine, un prelievo ematico – continua spiegando dettagliatamente tutti i passaggi –. Mia figlia viene fatta accomodare su una poltrona e io invitata ad attendere in sala d’aspetto. Lo spettacolo è davvero sconcertante: persone che urlano, insultano il personale, arrogano diritti inesistenti o all’inverso altre che soffrono in silenzio e non capiscono perché non gli sia permesso neppure avere una visita di controllo. Il tempo passa. Finalmente sottopongono mia figlia a una visita e le fanno un’ecografia. Più tardi saprò che la diagnosi è ancora incerta. Ma lei continua a stare male e ormai è quasi mezzanotte. All’una di notte una dottoressa chiede di parlarmi e mi spiega che, dati i valori emersi dalle indagini cliniche, preferirebbero tenerla in osservazione per la notte. Ma dove? Come? Non ci sono lettini né poltrone liberi. Firmiamo e andiamo a casa». L’attesa però si protrae anche il giorno seguente nonostante la giovane accusi malesseri fino alla nausea.
«ENTRIAMO alle 7.30 e aspettiamo tra un codice rosso e l’altro. A un certo punto, mentre sono accanto a mia figlia, si avvicina un’infermiera che la guarda con occhi imploranti e le chiede come si sente, perché, nel caso non stesse poi così male, c’è un altro paziente che ha urgenza di avere un lettino. Intanto io cerco di capire. Se si tratta di iniziare una terapia, perché non cominciano a somministrarle almeno un antibiotico? Se è grave perché non intervengono? Ormai sono le 15 del pomeriggio del secondo giorno. Inizio a disturbare tutti i medici presenti e quelli che conosco telefonicamente. Mi dicono che è meglio rimanere in ospedale per ulteriori controlli. In realtà, lo capirò solo in seguito, non ci sono posti disponibili nei reparti di chirurgia, ma è quasi certo che mia figlia sarà sottoposta a un intervento di appendicectomia. Solo alle 17 si libera un posto letto, dopo un’ora viene visitata dal chirurgo e alle 19,30 portata in sala operatoria. E’ davvero avvilente vedere queste situazioni in un ospedale nuovo. Con la chiusura dei presidi periferici medici e infermieri sono costretti a fare l’impossibile. Nel caso di mia figlia tutto è andato bene, ma se nel frattempo fosse accaduto un altro imprevisto cosa sarebbe successo?».