Arriva all’appuntamento puntuale, come sempre. Ma la differenza si nota subito: niente divisa e soprattutto niente telefono che fuma. La nuova vita di Piero Paolini è iniziata da pochi giorni. Più precisamente da lunedì. Quiescenza, si dice in questi casi. E ora? "Inizia una nuova fase. Niente è per sempre, come ripete spesso mia moglie Carla. Non posso negare un certo disorientamento per uno come me abituato a una vita frenetica. Ma l’uomo è resiliente, si abitua a tutto e io non faccio eccezione. Sicuramente e finalmente dedicherò più tempo alla mia famiglia". Una missione, la sua, durata quattro decenni. Da bambino sognava di fare il medico?
"Nemmeno per idea. Alle elementari mi sarebbe piaciuto fare il prete, poi col passare degli anni virai verso l’architetto, pur essendo negato col disegno. Non ho mai pensato di diventare dottore, figuriamoci d’emergenza. Quando passava l’ambulanza ero il tipo che faceva gli scongiuri. Una volta ero in palestra a giocare a pallavolo e a un amico uscì la spalla in conseguenza di una schiacciata. Come nulla fosse andò alla rete e con un colpo se la rimise a posto. E io svenni".
Com’è finito alla facoltà di Medicina?
"Terminato il liceo scientifico ero pronto a iscrivermi alla facoltà di Agraria insieme a un amico. Lui alla fine cambiò idea e non ne feci nulla nemmeno io. E siccome molti dei compagni di classe avevano deciso di iscriversi a Medicina, seguii la stessa strada".
Non proprio una vocazione, quindi. Però poi questa strada le deve essere piaciuta…
"Tantissimo. In quegli anni ebbi modo di conoscere Giorgio Patrizio Nannini che mi disse che aveva intenzione di ricostruire la Croce Verde. Era il 1979 e da lì nacque il mio amore per l’emergenza e per la Croce Verde, dove sono rimasto per quindici anni. Fu il professor Bartolomei a suggerirmi di specializzarmi in anestesia. Una scelta che ha condizionato, in senso positivo, tutta la mia vita".
Facciamo un salto in avanti. Il 31 dicembre 1994 le viene affidata una ‘missione impossibile’… "Chiamiamola così (ride, ndr). Mi chiesero di organizzare la prima centrale operativa del 118, che fu pronta a partire dal luglio successivo nei locali della Misericordia. A marzo 1996, poi, ci fu il trasferimento nei locali dove si trova ancora".
Cos’è cambiato da allora??
"Praticamente tutto. A partire dal numero di postazioni, che da 4 sono diventate 25. In questi trent’anni la tecnologia ha fatto passi da gigante e ci ha permesso di realizzare cose allora inimmaginabili. Ma anche l’approccio stesso è diverso: la centrale delle origini era una sorta di call center che cercava di superare l’impasse legata alla storica rivalità tra Misericordie e Pubbliche Assistenze".
Quando le associazioni facevano a corsa per accaparrarsi il paziente?
"Esatto, senza un coordinamento vigeva la legge del più forte o del chi prima arriva...".
Del resto il volontariato in ambito sanitario è un unicum toscano… "
Per fortuna, aggiungo io. Il volontariato è un arricchimento e una grande risorsa: porta entusiasmo, voglia di fare e fa bene al sistema".
Il momento più difficile?
"In pandemia, perché abbiamo rischiato che saltasse il banco. Invece non solo il banco ha retto, ma ha rafforzato il sistema nel suo complesso e il rapporto col volontariato nello specifico".
Ha mai avuto paura?
"Al tempo del covid ogni giorno. Paura di non farcela col 118, con la Cross, di prendere il covid, di portare il virus in casa: per alcune settimane ho vissuto in centrale dalle 16 alle 18 ore al giorno. Poi, terminata la pandemia, feci una delle mie felici previsioni: ‘Abbiamo superato il covid, che ci può capitare di peggio?’. E sono arrivate in rapida successione la guerra in Ucraina, il terremoto in Turchia, la guerra in Libia, quella in Armenia, l’evacuazione sanitaria di Gaza…" Il momento più bello della sua carriera?
"Ce ne sono stati tanti, per fortuna. Sicuramente essere ricevuto e premiato dal presidente della Repubblica è stato un momento indimenticabile. Così come è impossibile scordare la cerimonia all’Auditorium con oltre 3mila volontari schierati per festeggiare la diffusione dei massaggiatori cardiaci automatici su tutte le ambulanze. Un’emozione enorme, che porta con sé anche altro".
Ovvero?
"L’importanza della squadra. Ciò che abbiamo costruito in questi anni è stato possibile grazie al lavoro di tutti. Persone fantastiche, che sono state parte integrante della mia famiglia. Una delle cose che mi manca di più è sapere che non le rivedrò ogni giorno".
Da pistoiese come vede la sua città?
"Premesso che sono innamorato di Pistoia e per questo non ho voluto allontanarmi, la vedo come una città con grandi potenzialità non colte a pieno. Anche per colpa degli stessi pistoiesi".
E’ mai stato attratto dalle sirene della politica?
"Mai. Sono sempre stato al di fuori, pur avendoci avuto rapporti quotidiani". Un rimpianto? "Non essere riuscito a terminare tutte le cose che avevo in mente. Spero che chi mi è subentrato decida di completare questi percorsi".
E se dovesse arrivare una chiamata dalla Regione per chiederle, ad esempio, di rimanere nel ruolo di referente regionale per le maxi-emergenze?
"Premesso che non ho ricevuto alcuna proposta formale e che ho appreso di questa possibilità dai giornali, non nego che per me sarebbe un onore. Perché ho ancora molto entusiasmo e perché il lavoro non è ancora terminato".