di Lucia Agati
Il tempo di discutere la tesi, il 19 ottobre 2019, uno studio sulla Nash, la steatosi epatica non alcolica (il cosiddetto fegato grasso), come fattore di rischio per il trapianto di fegato e la complicanza post trapianto, che il 30 marzo del 2020 aveva già indosso l’armatura anticovid per cominciare, da quel giorno, la sua missione di medico dentro la squadra Usca, casa per casa. Dietro ogni porta, occhi pieni di paura che il dottor Edoardo Borelli, nato il 6 settembre del 1992 a Pistoia, si porterà dentro tutta la vita.
Come è nata la sua decisione di diventare medico?
"La decisione di iscrivermi a medicina è venuta dopo aver frequentato l’indirizzo biologico dell’istituto Pacini. A luglio avrò il test per la specializzazione e per il momento sono ancora indeciso tra malattie infettive e medico di base. Il mio primo incarico, da libero professionista, è quello di medico di continuità assistenziale per l’emergenza covid. Avevo mandato l’iscrizione non appena era uscito il bando. Mi hanno convocato subito con una mail di conferma e c’è stata la prima, e unica riunione in presenza, per organizzare il lavoro. Poi il 30 marzo 2020 è stato il mio primo giorno alle prese con il virus".
Come si è sentito?
"Ero spaventatissimo, c’era come un velo di mistero sui compiti che ci sarebbero stati assegnati davanti a un virus nuovo. Ho avuto anche il dubbio se iniziare oppure no. Le persone necessarie per coprire la zona di Pistoia erano quindici-sedici, abbiamo risposto in dieci ed eravamo tutti spaventati. Avevamo paura di fare il passo più lungo della gamba. Ma il gruppo si è dimostrato subito molto affiatato".
Come è stato l’impatto?
"Non sei più uno studente a quel punto e ti devi prendere le tue responsabilità. Il percorso di medicina è molto teorico durante gli anni, ma poi ti ritrovi davanti al paziente e la firma è la tua. La prima ricetta l’ho fatta con il batticuore, poi ho preso il via e sono andato avanti come un amanuense, con più sicurezza".
Come è la sua giornata?
"Le visite nelle case sono almeno cinque al giorno, per ognuno di noi. Non si può procedere con la fretta perchè, ogni volta, occorrono quindici minuti per vestirsi e poi svestirsi, più il viaggio. La paura è stata ed è sempre tanta non siamo abituati alla pandemia, se non all’influenza".
Cosa le chiedono le persone appena entra in casa?
"La domanda è sempre la stessa “ora cosa mi accadrà dottore?“ e si apre un ventaglio di situazioni: dal niente al ricovero dopo tre giorni, e da quel primo contatto devi capire qual è il trattamento migliore ed essere capace di confortare le persone. Hanno paura di andare in ospedale, di non rivedere i propri cari, la paura più grande è quella. Ma anche noi ne abbiamo sempre molta, siamo protetti, ma non puoi mai sapere cosa potrebbe accadere, anche se nella nostra squadra non si è verificato nessun caso di contagio".
Ci sono stati momenti difficili da dimenticare?
"C’è stata una famiglia per la quale ho provato profonda tenerezza. Due genitori molto giovani, entrambi positivi, con un bimbo di pochi mesi, negativo. Erano molto in pena, indossavano la doppia mascherina e i guanti per toccare il loro bambino. Abbiamo cercato di tranquillizzarli spiegando che il neonato correva meno rischi. Ho provato compassione per una figlia asintomatica che non si dava pace per aver contagiato i suoi genitori".
Cosa la fa arrabbiare?
"A volte provo rabbia perché c’è ancora gente che non si rende conto di cosa accade quando contagi chi sta peggio di te".
La situazione è un po’ migliorata?
"Da quando sono iniziate le vaccinazioni ci sono meno casi. Ho notato questa differenza rispetto a un anno fa in questo stesso periodo: all’inizio dell’estate le persone stavano tutte bene, ora ci sono ancora malati molto più gravi, ovvero: chi è malato di covid ora è più grave rispetto a chi era malato lo scorso anno in questo periodo. I vaccini hanno diminuito i casi intermedi e sono rimasti i casi che si sarebbero aggravati comunque. E ora gli anziani si ammalano di meno. Alle vaccinazioni prendo parte anche io, fa parte dell’incarico: le faccio a domicilio, nei distretti e al circolo di San Biagio".
Si sente cambiato dopo un anno così impegnativo?
"Mi sento cresciuto, molto più responsabile. Prima, per prendere una decisione, avevo bisogno di un consulto, ora sono io che sciolgo i dubbi. Sono molto più autonomo. E rispetto a chi ha dovuto affrontare, nel lavoro, le difficoltà delle zone rosse e arancioni, mi sento fortunato, perchè non ho mai smesso di lavorare".
Quale rinuncia le è costata di più?
"Il viaggio. Devo ancora fare il viaggio post laurea, il giro del sud-est asiatico. E’ un viaggio spirtuale, come nel film con Julia Roberts “Mangia prega ama“, che ogni studente di medicina intraprende dopo sei anni chiuso, per sentire la libertà. Lo farò appena sarà possibile".