
Il funerale
Pistoia, 4 luglio 2024 – Tanta gente, e non solo del mondo dello sport, del suo sport, il calcio, ha preso parte, commossa, alle esequie di Comunardo Niccolai alla Chiesanuova, a Pistoia. Ha così salutato il campione, persona e non personaggio di un pallone che, purtroppo, rotola sempre con più difficoltà, scomparso a 77 anni a causa di un malore dopo sette lunghi anni di malattia. Sopra la bara, gigli bianchi, gerbere arancioni, una maglia azzurra e la foto della sua squadra, il Cagliari, con cui conquistò, nel 1970, uno scudetto divenuto leggendario. Il segno del riscatto di una terra bellissima, la Sardegna, che ha amato lui e tutti i protagonisti di quell’impresa in modo viscerale.
Presente anche qualche sportivo doc come Raffaello Vescovi, nativo di Lamporecchio, stesso ruolo stopper, che l’ha preceduto a Cagliari e a cui lasciò, suo malgrado, una maglia a cui era attaccatissimo. E ancora Panati, valdinievolino come lui, compagno di giovanili in terra sarda, Sergio Brio, stopper di Lecce, Pistoiese e Juventus, Armando Reggiannini, ex calciatore e allenatore, Valerio Magnini, guardalinee (perché un tempo si chiamavano così), della mitica terna di serie A capeggiata dall’arbitro fiorentino Gino Menicucci, e il delegato pistoiese della Figc, Roberto D’Ambrosio. Seduti in prima fila, l’adorata moglie Naida, suo angelo custode, specie negli ultimi tempi di vita, i figli Antonio e Stefano, il fratello, la nuora, il nipote.
"Con la sopraggiunta morte, i nostri rapporti con Comunardo si sono interrotti su questa Terra – ha detto il sacerdote –, ma ha iniziato la vera vita al cospetto del Signore, ove è stato accompagnato dagli Angeli". Riservato, ma fermo, deciso, uomo tutto d’un pezzo, Niccolai è stato rammentato con dolcezza sui social network dall’erede Antonio, anch’egli dapprima giocatore e oggi tecnico. "Un amico di mio figlio ha detto questo di mio padre: “nel calcio, come nella vita, la parola chiave è umiltà. E questa magnifica parola ti apparteneva, Leggenda. Sei stato la mia Leggenda“". In verità, non solo la sua: quella di molti, a Pistoia e in Valdinievole.
La leggenda di una generazione, che ha avuto una passione immensa per il calcio e ha seguito, quasi mitizzandoli, i suoi eroi. Perché erano innanzitutto uomini e poi sportivi e, di conseguenza, si cercava di emularli in tutto e per tutto. Anche nelle autoreti, perché di Comunardo Niccolai si narravano i successi, ma pure certi imprevisti, un po’ come le celebri "Maldinate" di Cesare Maldini, il papà di Paolo. E Comunardo, eccellente anche nella versione-ristoratore (cortese e affabile, sveglio, attento e disponibile), un po’ faceva lo sguardo severo, come a rimbrottare il malcapitato, un po’ ci marciava, perché quegli autogol l’avevano reso immortale.
"Era un altro calcio, fatto di ragazzi dediti al sacrificio: perché per arrivare e soprattutto restare in alto, nel calcio, bisogna essere seri, responsabili e sacrificarsi – ci sussurra in un orecchio Vescovi, 84 anni –. Ecco, Comunardo era uno di questi: serio, non serioso. Perché, come ogni giovane, dopo essersi allenato duramente, dopo essersi preparato, correva dietro le farfalle. Come me, come tutti". Era la magia del pallone, quella che ti ammaliava, conquistandoti. Ti sia lieve la terra, campione.