
di Giuseppe Meucci
PISA
Fu allora che certi gruppi nati sulla scia della contestazione sessantottesca persero l’innocenza e si scoprì che anche all’ombra della Torre il terrorismo eversivo e bombarolo aveva messo radici inaugurando la cupa stagione degli “anni di piombo”. La bomba di Marina, il delitto dell’Archetto in via La Nunziatina, la scoperta di una cellula delle Brigate Rosse e sullo sfondo una rara farfalla notturna e torbidi legami amorosi sono gli elementi che si intrecciano nella storia criminale che giusto mezzo secolo fa, proprio in questi giorni, prendeva corpo a Pisa. Un anniversario da rievocare.
Tutto cominciò la notte del 14 febbraio 1971 quando uno studente di ingegneria, Giovanni Persoglio, di 29 anni, figlio del titolare dell’impresa di costruzioni Gambogi, passando in auto sul lungomare di Marina vide uscire del fumo dalla saracinesca di una macelleria. Pensando a un incendio si fermò per dare l’allarme e proprio in quel momento una bomba che era stata piazzata dietro la saracinesca del negozio scoppiò investendolo in pieno. Giovanni Persoglio morì così, disteso sul marciapiede con la moglie che gli teneva la testa fra le braccia, senza neppure capire cosa gli era successo, guardando disperato e impotente l’inarrestabile fiotto di sangue che gli usciva dall’arteria femorale tranciata di netto da un frammento metallico scagliato come un proiettile dall’esplosione.
La matrice politica dell’attentato fu subito chiara perché il titolare della macelleria alcuni giorni prima non aveva voluto aderire a uno sciopero generale accompagnato da cortei e manifestazioni di piazza. Ma chi aveva messo la bomba per dare un avvertimento a quel negoziante? Dopo la spinta iniziale le indagini rallentarono fino a bloccarsi di fronte a un muro invalicabile di omertà. A far riaprire il fascicolo su quell’attentato fu un episodio accaduto tre mesi dopo, il 19 maggio, ancora una volta in piena notte ma in uno scenario del tutto diverso: il monte Castellare, sopra il paese di Asciano, dove si apre una voragine nota come la Buca delle Fate, profonda 180 metri. Fu intorno a quell’antro che uno studente pisano appassionato entomologo era salito in auto in cerca di una rara farfalla notturna, la "sfinge testa di morto". E mentre cercava di catturare un esemplare di quella falena si trovò di fronte due uomini che, illuminati per pochi attimi dalla luce della torcia, si allontanarono in fretta e furia senza dire una parola. Due giorni dopo, lì dove era avvenuto quello strano incontro, fu trovato il cadavere di un uomo, Luciano Serragli, proprietario della trattoria l’Archetto in via La Nunziatina, noto ritrovo dell’estrema sinistra pisana, quella che sognava la rivoluzione e la lotta armata. L’autopsia stabilì che l’uomo era stato ucciso con una iniezione di curaro, il micidiale veleno degli Indios.
Letta sui giornali la notizia del ritrovamento del cadavere, allo studente cacciatore di farfalle venne subito in mente lo strano incontro di due giorni prima. Ne parlò ai carabinieri e ci volle poco per cominciare a dipanare la matassa, visto che lui riconobbe subito nei due camerieri dell’Archetto, Vincenzo Scarpellini e Glauco Michelotti, i misteriosi personaggi incontrati vicino alla Buca delle Fate. Ed era proprio quella caverna la destinazione del corpo di Luciano Serragli, poi abbandonato fra i cespugli dai due camerieri al sopraggiungere del giovane armato di torcia e retino acchiappafarfalle. A quel punto non ci volle molto per trovare la chiave per comprendere anche un episodio fino ad allora misterioso come l’attentato di Marina.
Luciano Serragli era stato ucciso perché sapeva tutto dell’attentato di Marina, organizzato proprio nel suo locale, e aveva minacciato di rivelare i nomi degli attentatori alla polizia quando era venuto a sapere che la figlia di appena sedici anni, Luciana, e la moglie quarantenne Elsa Maffei avevano entrambe una relazione con uno dei due camerieri del locale, Glauco Michelotti, mentre l’altro, Vincenzo Scarpellini, si era adoperato per far abortire due volte la ragazzina. Ma se il Michelotti di politica e disegni eversivi non si interessava, Vincenzo Scarpellini era invece politicamente legato a Alessandro Corbara, un geometra della Provincia, che stava organizzando il gruppo pisano delle Brigate Rosse che si riuniva nel locale di via La Nunziatina. Ed erano stati proprio il Corbara e lo Scarpellini a piazzare la bomba a Marina per "punire" quel commerciante. Sconvolto dalle rivelazioni dei tradimenti della moglie e, soprattutto, per il coinvolgimento della figlia nel ménage a trois e per gli aborti, Luciano Serragli aveva deciso di vendicarsi raccontando tutto della bomba, firmando così la sua condanna a morte. Una sentenza senza appello sottoscritta anche dalla moglie e dalla figlia che così sarebbero così state libere di continuare il legame con il cameriere.
A iniettare il veleno al Serragli al posto di un medicinale che prendeva abitualmente provvide lo Scarpellini che aveva lavorato come infermiere in ospedale dove aveva trafugato una fiala del micidiale veleno che in dosi minime viene adoperato nelle anestesie. Compiuto l’omicidio nell’appartamento sopra il ristorante aveva preso il via la seconda parte del progetto che prevedeva il trasporto in auto del cadavere sul monte di Asciano dove sarebbe stato scaraventato nella Buca delle Fate, allora inesplorata. In teoria un delitto perfetto, perché se il Michelotti e lo Scarpellini fossero riusciti a raggiungere l’imboccatura della voragine quel corpo non sarebbe mai stato ritrovato. Ma i due camerieri non avevano fatto i conti con il cacciatore di farfalle e con quella "sfinge testa di morto" che popola il monte pisano nelle profumate notti di maggio.