
La parte più difficile del lavoro sono i bimbi. Quelle armature li terrorizzano. Sono bianche come ossa e inguainano da capo a piedi i membri delle Usca, le pattuglie formate da medico e infermiere che per 12 ore al giorno setacciano la Piana per eseguire tamponi in casa dei sospetti positivi. Ma sterilizzano anche le loro emozioni. E far capire ai piccoli che sotto due mascherine, visiera, cuffia e cappuccio di polipropene, c’è un sorriso, è impossibile. In fondo ogni medico Usca, è un Uomo di Latta nel Mago di Oz: coraggioso fino al midollo, sì. Ma vittima della stregoneria che impedisce di mostrare il proprio cuore.
"Alla fine – sorride Monia Matacera, medico chirurgo dell’Asl Nord Ovest, da aprile membro dell’Usca – ci si abitua. Per convincere una bimba di 4 anni a fare il tampone, durante una visita a casa, lo abbiamo prima fatto alla sua bambola. Dopo ha accettato". La dottoressa 48enne di origine elbana, è stata tra i primi, dal 6 aprile, con sei colleghi ad accettare la missione a Lucca. Le regole d’ingaggio: infilare le tute, accendere il motore e girare un territorio di oltre 300 chilometri quadrati (da Lucca a Pescaglia, passando per Capannori), bussando a casa e ’tamponare’ i sospetti positivi. Ma quella era la prima ondata "Eravamo tutte donne: due medici e un’infermiera. Poche? Forse, ma ci sono colleghi che non se la sono sentita. Io non mi sono mai pentita di aver accettato". Nemmeno il primo giorno. "Entrammo in due, l’infermiera restò fuori". A far quella che, in gergo, si chiama la ’pulita’: una persona lontana dal rischio contagio che aiuta a svestirsi e smaltire le tute. Quel gergo, ad agosto con meno di 10 positività in tutta la provincia, era già preistoria.
"Invece no. Oggi vediamo più positivi rispetto ad aprile". Non significa più malati, ma più persone in grado di far ammalare: il segreto con cui il virus tiene in scacco il Pianeta. "In media in un giorno facciamo 20 visite, almeno la metà sono nuovi positivi. E per finire il turno ci spingiamo fino alle 23".
‘Merito’ del tracciamento che ha ingranato. Ma sono anche i numeri dell’epidemia che dilaga. Il calcolo Monia lo fa al volo, mentre varca l’uscio dell’ambulatorio del Campo di Marte dove arriva ogni mattina alle 8. Qui, di fronte a un computer e a un telefono si ritrovano i nove dell’Usca (altre due unità seguono invece Mediavalle e Garfagnana) divisi in due turni su 12 ore: monitorano al telefono i saturimetri dei pazienti, ricevono fino alle 10 le chiamate dei medici di famiglia che chiedono tamponi. "Sono tantissime". Poi un medico resta in sede. Per gli altri inizia il ’giro’. Quello dal quale, se fai un passo falso, torni a casa infettato. "Nell’ultimo mese siamo arrivati da persone che avevano la saturazione del sangue molto bassa, forse peggio che ad aprile". ll suo primo caso lo ricorda ancora. Fu uno dei primi ad agosto a innescare il focolaio che per 60 giorni avrebbe covato sotto la cenere. "Si trattava di una famiglia tornata dalla Romania: avevano la febbre, li presi io in carico come guardia medica prima e poi come Usca". L’intuito servì a tamponare il ritorno di fiamma. Ma il virus è passato lo stesso.
" La differenza è che durante la prima ondata andavamo a visitar pazienti che già sapevamo essere positivi. Ora entriamo e spesso siamo noi stessi a rilevare la prima positività". In poche parole: il contagio è più ampio di quel che si pensi. E, forse, servirebbe più personale alle Usca. Ma la buona notizia c’è. L’Asl doterà l’ambulatorio di altri computer oltre al solo di ora. "In fondo siamo gli unici medici che le persone in isolamento, vedono". Ma ci sono anche i testardi. O i negazionisti. "Sono pochissimi, ma non voglio farsi il tampone. In quel caso avvertiamo l’Ufficio di Igiene Pubblica". Il mantra degli altri, di famiglie intere è: "Non ci abbandonate: continuate a chiamarci, vi leggeremo il saturimetro". Sette mesi di Usca hanno insegnato che peggio dei polmoni picchiati dal Covid, ci sono solo gli schiaffi della solitudine. Per la quale c’è solo una cura: parlare. "Per questo ci mettiamo l’anima. Ma serve attenzione". A partire dalla vestizione. "Richiede una decina di minuti. Il nostro ‘compagno’ è il Rot (Rifiuti Ospedalieri Trattati): un bidoncino dove buttare le tute a fine servizio". Il virus non deve trovare spiragli per farsi la tana. Lo ha fatto con un amico di Monia, un farmacista di 60 anni, annegato per sempre nella prima ondata. E ora che il mare è in tempesta, sa che deve tenere il timone dritto. "Quando finirà? Non lo so. Ma so che finirà". Quel giorno, sotto l’armatura, tutti potranno vedere battere un cuore.
Claudio Capanni