Caso Corini, Marzia confessa i falsi testamenti «Ma rispettai le volontà di Marco»

Il drammatico racconto della sorella: "Cacciata di casa a 19 anni

L’imputata Marzia Corini

L’imputata Marzia Corini

La Spezia, 26 maggio 2018 - «Non sapevo di commettere dei reati. Ma anche se l’avessi saputo, lo avrei fatto lo stesso: per me l’importante era rispettare la volontà di Marco. I suoi occhi imploranti mi strappavano il cuore dal petto. Ho dato corso alle sue volontà, quelle prima espresse a voce il 18 settembre 2015 e poi attraverso gli appunti redatti il 23 settembre». Così ieri, a sorpresa, Marzia Corini si è assunta la responsabilità solitaria dei due falsi in testamento: quelli conseguenza della redazione da lei operata e delle successive modifiche, dopo la morte dell’avvocato, il 25 settembre 2015, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto incontrare il notaio. Nessuna chiamata in causa della coimputata, sul punto, Giuliana Feliciani, ex collega di Marco.

Le rivelazioni sono avvenute attraverso la formula delle dichiarazioni spontanee ammesse dalla Corte di assise presieduta dal giudice Giancarlo Petralia. Dichiarazioni tese a ricostruire i rapporti prima idilliaci e poi conflittuali con Marco, fino alla ricucitura degli stessi quando lui era malato terminale, fino all’ultimo atto della sedazione decisa, anche quella, in solitario. Una narrazione segnata da commozione e lacrime. Come quando la rilanciato la sua tesi: «Non l’ho ucciso; l’ho sedato per non farlo soffrire quando ormai non c’era altro da fare».

Come già aveva sostenuto nell’intervista a "La Nazione" ha spiegato i sentimenti che l’avevano animata durante la telefonata-boomerang (intercettata) a Susanna Cacciatori, telefonata del gennaio 2016 nella quale, fra l’altro, disse che Marco avrebbe potuto ancora vivere oltre il 25 settembre, lasciando così intendere che la sua fu un’azione omicidiaria e avesse agito per interesse: evitare il matrimonio del fratello con Isabò Barrack o l’incontro col notaio. «Ero mossa dai sensi di colpa per non aver aiutato Marco a tempo debito, quanto me lo aveva chiesto, all’inizio e dopo il crescere devastante della malattia. Sentivo il bisogno di espiare una pena morale. Quello era per me un periodo di inferno. Ero lacerata per il tempo perduto nell’assistenza a Marco. Sono arrivata troppo tardi...».

Drammatica la ricostruzione dei rapporti familiari. «A 19 anni, nel 1983, venni cacciata di casa, dopo un’infanzia e un’adolescenza nelle quali l’amore fra me e Marco fu profondissimo. In casa scoprirono, attraverso la lettura di una lettera alla mia compagna trovata nel zaino, che ero e sono omosessuale. Dalla sera alla mattina venni allontanata. Di me si presero cura gli amici più cari, che ancora mi stanno al fianco. L’Università fu la mia ancora di salvezza. Attraverso lo studio e la motivazione a praticare la missione medica nei teatri di guerra, vicino ai più deboli, sono andata avanti, coronando poi il mio progetto».

«Ho riparlato con Marco solo nel ’93, quanto nostra madre ebbe una emorragia cerebrale. Rapporti freddi anche, quando l’anno dopo, morì mio padre. Decidemmo allora di rinunciare all’eredità a favore di mia madre». Poi un altro lungo black-out. Fino al 2103 quando si palesò la malattia. Lei era in Siria, ad assistere i feriti della guerra. «Non risposi a due richieste di aiuto di Marco. Alla terza, veicolata da una cugina che mi rappresentò il precipitare della situazione, decisi di fornirle il mio numero di cellulare. Se Marco mi vuole chiamare, risponderò. Accadde dopo due minuti. Marzietta ho bisogno di te. Mi disse. Quel termine, lo stesso che usava quando eravano bambini, annullò ogni risentimento. Da quel momento mi prodigai per Marco, dando forma a una rete di protezione medica. Ma la malattia all’epoca era inarrestabile. Affrontata prima con cognizione poteva essere vinta. Per questo il senso di colpa è cresciuto dopo la sua morte. Io amavo Marco. A volte mi sembra di sentire il rumore delle sue ceneri che si muovono sul fondo del mare. Quando morirò vorrei che le mie ceneri si mescolassero alle sue».