"Preso a bastonate se sbaglio un lavoro" L’incubo degli operai bengalesi della nautica

La testimonianza di un addetto di una società in subappalto: "Per 1.200 euro al mese sono costretto a subire violenze e umiliazioni"

Per quanti soldi sareste disposti a prendere bastonate sul posto di lavoro? La risposta, in un cantiere della nautica di lusso di Spezia è 1.200 euro. Tanto infatti guadagna il lavoratore bengalese, che rimarrà anonimo, ci ha raccontato la sua storia. Una storia che sembra uscita da uno dei racconti di sfruttamento di inizio secolo scorso, quando i lavoratori avevano solo doveri e nessun diritto.

Eppure succede anche qui, anche adesso. E non stiamo parlando di un caso isolato che nasce dalla prepotenza, o dalla follia, di un superiore, ma di una pratica che, nel sottobosco del subappalto, è facile incontrare. "Quando sbaglio un lavoro - racconta Dhaval (il nome è di fantasia) - o faccio un lavoro che secondo il capo squadra non va bene vengo picchiato. Con gli schiaffi, i calci e anche con un bastone". Ma la sopraffazione non si ferma qui. "Mi grida insulti di ogni tipo. Minaccia anche la mia famiglia, mia moglie, i miei bambini". Già, perché la realtà dei bengalesi che vivono e lavorano in Italia è comunque collegata a doppio filo con il Paese d’origine, dove le loro famiglie sono esposte, appunto, a minacce e ritorsioni. Anche perché quello che regola i lavoratori che arrivano dal Bangladesh è sistema che prevede controlli rigidi e sistematici. Chi sgarra, cioè chi denuncia, rischia in prima persona, ma rischiano anche i suoi familiari.

A tutto però c’è un limite e la paura e lo stress di Dhaval erano arrivati a un tale livello che ha dovuto cercare aiuto. Ha trovato la Cgil di La Spezia che, dopo l’inchiesta “Dura Labor“ dell’inverno scorso sul caporalato nella cantieristica e nella nautica - nella quale si è messa in gioco direttamente fornendo supporto legale e sindacale ai lavoratori schiavizzati - è riuscita a rompere il velo di diffidenza e omertà che avvolge la comunità bengalese e diventare un punto di riferimento. Nel caso di Dhaval il sindacato ha iniziato a raccogliere testimonianaze di altri lavoratori nei confronti di questo preposto violento. Un dossier pronto per il tavolo del magistrato. Che dovrà verificare anche se questo sia un nuovo caso di caporalato. Il sospetto è infatti che questo capo reparto se la prenda in particolare con Dhaval e alcuni altri perché non sono “suoi uomini“, non è stato lui a procacciargli il lavoro. La situazione nella quale si trovano questi lavoratori è infatti una sorta di tenaglia. Nel quale il collocamento ha una parte fondamentale. E il caporale ha un potere assoluto. Quando poi chi fa il caporale ha anche un ruolo di comando dentro l’officina il rischio di rimanere stritolati dall’ingranaggio è molto alto.

La storia di Dhaval dentro questa forma moderna di schiavitù è iniziata oltre dieci anni fa con il suo arrivo in Italia. "Un amico - racconta - mi disse che in Italia si guadagnava bene e così tramite un conoscente di Roma sono riuscito ad arrivare". La trafila però era solo all’inizio: prima di tutto serviva mettersi in regola e per questo è arrivato in aiuto un altro conoscente che ha la possibilità di assumerlo - o meglio, far risultare come assunto - in un ristorante. Il tutto alla modica cifra di 15mila euro. Da lì, sempre tramite conoscenze, il lavoro come muratore in un cantiere in Liguria, poi commesso in un piccolo negozio e dopo ancora in un supermercato. E infine l’arrivo a Spezia e la nuova occupazione in cantiere. Dove il lavoro non manca. Niente di definitivo, s’intende. Tutti contratti con ditte in subappalto della durata di qualche mese.

Ma lo stipendio è “da sogno“, per lo meno se paragonato a quello che per lo stesso lavoro riceverebbe in Bagladesh. Nel suo Paese si aggirerebbe, sempre di riuscire a trovare un cantiere che lo prenda, intorno ai 200 dollari al mese. Qui invece porta a casa 1.200 euro. Certo, qui può capitare che il capo di prenda a bastonate se sbagli una mano di vernice. Ma alla famiglia ogni mese arrivano soldi che possono fare la differenza tra vita ed elemosina. "Ogni mese riesco a mandare a casa 500 euro - racconta Dhaval - Il resto mi serve per vivere qui". I conti sono presto fatti: 500 vanno alla famiglia, buona parte dei quali servono per la scuola e il mantenimento dei due figli, "300 invece mi servono per la casa qui. E poi devo aggiungere i costi di acqua, gas e luce". La “casa“ è in realtà un letto in una stanza doppia dentro un apprtamento di tre locali che divide con altri sei connazionali. "Poi ci sono i costi dell’autobus per andare a lavorare e alla fine i soldi per comprarmi da mangiare". Spazio per il divertimento, come si vede, non ce n’è molto. Ma Dhaval non si lamenta: "Io sono molto religioso, il tempo libero, lo uso per cucinare e poi per pregare". Quello che invece non riesce più a sopportare è di andare in officina con la paura di ricevere una bastonata per una vite fissata male.

Luca Tavecchio