
Una cliente dall’accento inglese si siede al tavolo. Ordina i piatti che meglio raccontano questa tavola figlia di terra e mare, li gusta con attenzione, cogliendone ogni sfumatura e apprezzandone l’esecuzione. Paga, ringrazia e se ne va. Sembra un’avventrice come un’altra, ma non è così: si tratta di Marina O’ Loughlin, critica gastronomica del Times, da molti considerato il più autorevole quotidiano britannico. Un palato esigente e raffinato, che sul sito del giornale ha tessuto le lodi dell’Osteria da Caran, raccontandone storia centenaria e, tramite questa, la spezzinità.
Inserito nella rubrica ‘Table Talk’, questo raccontorecensione esperienziale ben spiega l’incontro tra la critica e i nostri sapori, avvenuto decenni fa e ripetutosi recentemente. Un patrimonio sapientemente tramandato dai gestori Monica Guidi e Diego Sommovigo. "Per noi – spiegano – è un riconoscimento importante. Siamo venuti a sapere dal nostro falegname di questo articolo: l’autrice lo conosce e glielo ha inviato. Noi ne eravamo ignari e non lo sospettavamo: d’altronde, quando è stata qui, non ci ha detto chi fosse, né ha chiesto un trattamento di favore come fanno molti food blogger".
Oltre ad esprimersi sulle qualità del mangiare, la O’ Loughlin ha fatto centro anche nel raccontare l’essenza locale. "Siamo contentissimi: ha colto perfettamente ciò che volevamo comunicarle, il nostro spirito di tradizione fatto delle cose di una volta. Il pezzo è venuto veramente bene, ha capito l’identità spezzina". Ed il primo attestato arriva direttamente dal titolo: "Come Marina O’ Loughlin ha scoperto il vero cibo italiano". Una lezione che ha assimilato velocemente in questo locale alfiere della cucina locale, andando alle origini della gastronomia sprugolina e dell’arte culinaria italiana, abbracciata grazie a Caran (raffigurato nel pieno della sua vitalità nell’illustrazione di Alex Green). Un’oasi in anni di frequentazione delle tavole tricolori. Sì, perché la critica, discendente da una famiglia ligure da parte di madre, era un’assidua del nostro paese fin da bambina, dove – come lei stessa racconta – era rimasta per periodi più prolungati da adolescente per migliorare la pratica della lingua. E proprio alla Spezia, non ci mise molto ad ambientarsi, socializzando velocemente con gli ‘arsenalotti’. Fu quella l’occasione per il primo incontro con la mesc-ciüa, "il più povero esempio di ‘cucina povera’" (lo scrive in italiano, ndr.). Un cibo di cui narra le origini e che per i suoi parenti, sbalorditi, era roba da tacchini. E via con gli altri sapori made in La Spezia, passando anche per la Festa de l’Unità, di cui scoprì anni dopo le origini politiche, dove fece la conoscenza dei mitici sgabei. Proprio nel periodo della giovinezza conobbe l’antica osteria della Chiappa: quartiere di cui traduce il nome letteralmente e che – manco a dirlo – scatenò l’ilarità in questa 16enne arrivata dalla Gran Bretagna. Fu colpo di fulmine, con questo locale ‘favolosamente economico’, ambientato in un edificio antico e polveroso arredato con legno consumato e marmo. Decenni dopo, Marina è tornata in quel tempio delle meraviglie, pur avendo letto nel sito una parola che non le era piaciuta, innovazione: proprio quella che lei non voleva. Ma con sollievo, la strada per un nuovo viaggio per le sue papille gustative era spianata nel segno della tradizione: muscoli alla marinara, farinata, focaccia, mesc-ciüa… peccato, soltanto, non aver trovato gli sgabei nel menù.
Chiara Tenca